Mujeres de letras: pioneras en el arte, el ensayismo y la educación
BLOQUE 5. Profesoras y pedagogas

Io accademica, io saggista, io donna: Marina Addis Saba, la ricercatrice detective

Damiano Piras

Universidad Nacional de Educación a Distancia (UNED)

Riassunto: Quando entrai in contatto con gli scritti di Marina Addis Saba capii immediatamente che dinanzi a me non possedevo solo dei semplici testi bensì delle ricercate testimonianze di una vita improntata sulla ricerca e sugli studi, sui valori dell’uguaglianza, del rispetto e del giusto, sulla fervida passione per quegli Women’s Studies che, tra articoli, saggi, testi, conferenze e seminari, divennero uno dei temi centrali della sua produzione letteraria e del suo stile di vita. Vedremo insieme come le tappe delle conquiste al femminile del Novecento coincidano in gran parte con la produzione scritta della Saggista, la quale dimostra di aver messo in pratica nel migliore dei modi il prezioso invito alla scrittura offertole dal grande amico e maestro Antonio Pigliaru.

Parole chiave: Women’s Studies; Storia e femminismo; Sardegna; Saggistica; Uguaglianza di genere.

Esistono persone capaci di emozionare con le parole, di innalzarsi oltre il muro dell’indifferenza generale o del facile conformismo storico e di opinione per guardare la società con occhio critico, egualitario e femminile; esistono individui che si espongono in prima persona per manifestare i propri ideali, senza paura di apparire e senza presunzione di essere, di lottare per l’onore e di sdegnarsi dinanzi alle ingiustizie della società in cui vivono. Sono esseri umani che possiedono il più grande dei pregi possibili: possono guardare la vita negli occhi e a testa alta, in completa assenza di timore reverenziale nei confronti di quest’ultima. La “professoressa, studiosa, moglie amante e madre, cuoca veloce, infermiera e narratrice di favole, amica, figlia che vedeva invecchiare i suoi genitori, donna politica e donna di mondo” (Addis Saba 2004: 71) Marina Addis Saba riesce ad essere tutto questo e molto di più. Esponente del mondo intellettuale e antifascista sardo è autrice di numerosi saggi, articoli d’inchiesta, biografie, nonché intima relatrice della propria vita e delle proprie emozioni attraverso un’autobiografia ironica, pungente, sentita e illuminante.

È questa abile sapienza di donna, letterata e storica che captò immediatamente la mia attenzione, la sua voglia di ricercare al di là della mera osservazione approssimativa, quella sua naturale ritrosia ad addentrarsi in forme di ricerca insipidamente superficiali per virare su sentieri investigativi settoriali, scomodi senz’altro, ma estremamente efficienti ed efficaci, ricalcando un modello di indagine analitico proposto da Giovanni Morelli prima, e ripreso da Carlo Ginzburg poi. Io, umile ricercatore di anime e menti letterarie femminili, mi lasciai cullare fin da subito dallo stile composto, dalla precisione saggistica e dalla sottile ironia della professoressa sarda, ne rimasi piacevolmente sorpreso e fui letterariamente travolto dalla qualità dei suoi elaborati. Ben conscio del fatto che riuscire a racchiudere in questo limitato contributo tutta la sua conoscenza del mondo, le sue innumerevoli battaglie sociali e politiche nonché la sua bramosia di restituire alla donna la dignità e la posizione storico-sociale che merita (e che ha sempre meritato, aggiungeremmo) costituisse una battaglia persa in partenza, decisi di offrire uno spaccato della Addis Saba che facesse leva su una delle tematiche chiave del suo essere e della sua scrittura: la questione femminile e gli studi di genere che abbraccia e supporta con tutte le proprie forze, attivamente e passivamente, sempre con estremo entusiasmo e forza di volontà. L’ottica femminile e razionalmente femminista della letterata sarda ci permette di analizzare a fondo le differenti sfaccettature della sua vita e ci restituisce l’immagine di una donna tenace e caparbia.

Quello verso i Women’s Studies è un sentimento ricercato e ponderato, accresciuto e condiviso nelle aule di prestigiose università europee, tra conferenze e dibattiti, combattuto nei suoi atteggiamenti quotidiani nonché orgogliosamente disposto nero su bianco nei propri scritti, dimostrando di aver fatto buon uso degli inviti alla scrittura e alla ricerca ricevuti dal compianto Antonio Pigliaru; quella scrittura che per sua stessa ammissione rappresenterà un ancora di salvezza nei momenti difficili, un mezzo per superare lutti, delusioni e fatiche del doppio lavoro, la vera conquista delle femministe. Storia di genere, quindi, ricerche che partono da convinzioni innate nell’animo dell’autrice, che crescono col passare del tempo e che in questa sede presento sotto vari aspetti. Non vi è spazio per l’improvvisazione o per l’approssimazione nel suo essere donna e attivista, passione e ragione si fondono in un tutto degno di nota e le prese di posizione fanno sempre leva su una competenza storiografica solida e ragionata:

Cerco di realizzare la mia funzione, che è quella di insegnare e di fare ricerca, come intellettuale specifico che si serve della propria disciplina per conoscere ma anche per prendere posizione nei confronti dei problemi che oggi interessano la società in cui opera: poiché il sapere, anche quello storico, per dirla con Foucault, non è un sapere archeologico, ma un sapere prospettico (Addis Saba 1985: 11).

La Addis Saba punta su un attivismo personale ed emozionale atto a un’efficace e veritiera rivisitazione della storia in ottica femminile più che alla creazione di muri divisori tra due sessi propugnato dalle femministe più combattive e impulsive. La ragione smuove le sensibilità e la penna alimenta passioni e crea movimento, la mera lotta femminista che rifugge da ogni possibile mediazione con il genere maschile e con le istituzioni, pur fautrice di importanti raggiungimenti, si dimostrava limitata e la Saggista sarda intuisce immediatamente che, in taluni casi, la virtù del pazientare, la collaborazione e l’accettazione di compromessi possono condurre più velocemente ai traguardi sperati. I Gender Studies in Italia approdano in sordina, in un secondo momento rispetto ai Paesi Anglosassoni, alla Francia e alla Germania, e trovano terreno fertile in quei gruppi di autocoscienza femminile fautori di un lento, quantunque inesorabile, passaggio di consegne da un concetto di famiglia patriarcale a una progressiva emancipazione della donna, ormai consapevole delle proprie necessità, dei propri diritti e delle proprie forze. Come vedremo più dettagliatamente in seguito, il Regime fascista provò a soffocare la crescente presa di posizione delle donne, in modo ingannevole e prepotente, ma l’arroganza ha storicamente vita breve dinanzi alla determinazione, cosicché, al termine del conflitto, le donne vinsero la loro battaglia più importante: ottennero il loro sacrosanto diritto al voto attivo e passivo dopo decenni di lotte sociali e di delusioni e, successivamente, le ventuno donne elette (furono cinquecento dieci i loro colleghi uomini) ebbero modo di collaborare attivamente alla stesura dei principi della Carta Costituzionale. Gli anni Settanta smossero definitivamente le coscienze dell’opinione pubblica, segnarono un cambio di marcia concreto verso la definitiva consolidazione del binomio “persona-donna”, tanto caro alla Letterata sarda; il problema principale era rappresentato dal colpevole silenzio che le istituzioni accademiche tributarono inizialmente al movimento delle donne, motivo per cui i principali avvenimenti di “genere” ebbero luogo dapprima fuori dagli organi di istruzione ufficiali. Per le accademiche aderenti al movimento si rese necessario applicare la strategia del travestimento, un agire in modo occulto attraverso etichette generiche e poco allarmanti, una corsa al nascondino ben sintetizzato in questo concetto di Paola Di Cori:

Fino al 2000 le studiose femministe hanno fatto ricerca e insegnato ‘sotto mentite spoglie’, prive di nome, impossibilitate a esibire la propria carta d’identità. Gli studi delle donne li abbiamo dovuti non solo inventare, ma anche continuare a reinventare un anno dopo l’altro, come se ogni volta fosse stato necessario presentare di nuovo i documenti per dimostrare la validità di nome, data di nascita e domicilio di residenza (Di Cori 2013: 16).

La genesi del movimento di Genere nel nostro Paese parrebbe riflettere in pieno la veemente personalità, attività e produzione saggistica e letteraria della Addis Saba; lei, ricercatrice e professoressa universitaria, appartiene di diritto alla categoria delle accademiche irriducibili, innamorata delle proprie idee, amante del giusto e del concetto dell’uguaglianza sociale, osservatrice interessata alle molteplici relazioni che le donne del ventesimo secolo imbastirono, di volta in volta, col Regime fascista, con la Costituzione, con la consapevolezza della propria femminilità e dei propri diritti sociali, con la becera discriminazione che sfocia nella violenza di genere, con una società decisamente di stampo misogino e dura a maturare, giusto per citarne alcune. Ma se la Addis Saba accademica ci consente di tesserne le lodi in qualità di attivista, di docente e di storica, aprendoci le porte della sua mente, la Addis Saba donna e autobiografa ci spalanca le finestre del suo cuore e della sua anima più intima, della sua sarda determinazione e del suo lato letterario più ironico.

La sua attenzione storica si posa principalmente sul fascismo perché permane “la necessità di comprendere le cause del sorgere del fascismo e del suo affermarsi, di cogliere le caratteristiche del fenomeno studiandone dall’interno i progressi, la diffusione, l’esito, come di una malattia, ereditaria o improvvisa, di cui si è sofferto e di cui si vuol guarire davvero” (Addis Saba 1976: 33), sebbene sulla scelta sia risultata decisiva l’amicizia con il già citato professor Antonio Pigliaru, maestro di vita oltre che docente eccelso, il quale seppe condurla sui binari della conoscenza profonda di sé stessa e delle sue potenzialità, e che riuscì a piantare in lei il seme della curiosità per via della sua giovanile militanza nel partito fascista. Spiegarsi come fosse stato possibile che un uomo così saggio, mite e sempre prodigo di buoni consigli avesse potuto accostarsi ideologicamente a un Regime tanto insensibile ed efferato divenne una priorità, e il desiderio di sapere si ingigantiva ogniqualvolta il Maestro, con sguardo indulgente e sincero, proferiva la fatidica frase: “studia e capirai” (Addis Saba 1996: 241). Lo studio, pertanto, si trasforma nell’unica vera arma contro l’omertà, le ingiustizie e la viltà, in un valido modo per osservare il passato da una prospettiva più matura, per cacciare i demoni usando la ragione e per vincere i propri timori. E la Addis Saba aveva tutte le ragioni per odiare un Regime che tanta sofferenza arrecò alla propria famiglia e che tante lacrime fece sgorgare dagli occhi dei suoi cari genitori. Ciononostante, dinanzi alle avversità e ai periodi bui taluni preferiscono rifuggire dai ricordi, rintanandosi in un mondo idilliaco fatto di presente e futuro, mentre tal altri affrontano le ombre sprezzanti del pericolo e speranzosi di rendere giustizia postuma a sé stessi o a qualcun altro: la Addis Saba palesa questa voglia di affrontare quell’impalpabile nemico politico mettendo in gioco tutta la sua competenza storiografica, la sua anima da detective ricercatrice e la sua brillante femminilità. Da fanciulla osservò la condizione femminile durante il Regime, ebbe occasione di cogliere quel brillio speranzoso emanato dagli occhi di tutte quelle giovani illuse dai proclami accattivanti ma fuorvianti del potere, di abbracciare la rabbia e la frustrazione di altre “ribelli” come lei.

Le sue accurate ricerche permettono di osservare il lento ma progressivo mutamento della situazione della donna dal periodo futurista a quello fascista, un cambiamento inarrestabile (ma forse evitabile) che sfocia nella sottolineatura del modello femminile fascista della “donna muliebre” (Addis Saba 1988b: 33), una donna che vive in un turbinio di emozioni, in costante bilico tra un inquadramento nel proprio ruolo classico di mamma-moglie e un’ipotetica figura di nuova super donna patriottica che, sospinta da lusinghiere promesse e da idilliaci proclami di rinnovamento, si ritrova comunque a svolgere le mansioni di sempre, quantunque con uno stato d’animo maggiormente propositivo e virtualmente appagato. La Addis Saba sviscera sapientemente gli avvenimenti chiave di questo cambiamento, partendo dalle basi atte a plasmare questa donna religiosa, calma ma determinata, il cui sacrificio doveva sempre essere accompagnato da un sorriso. E fu così che la nostra Saggista cominciò ad intuire le vere ragioni della militanza fascista del professor Pigliaru, del suo impegno nei GUF, della sua partecipazione ai Littoriali Fascisti nonché del suo lavoro presso il giornale Intervento: anche lui era stato traviato dagli speranzosi annunci di progresso e miglioramento emanati dal Regime, anche lui aveva “disperatamente amato” (Addis Saba 1996: 241) quella corrente politica capace di modellare le menti dei giovani italiani, la stessa corrente che ripagò le sue speranze e le sue illusioni con il carcere e la prematura malattia. La ricerca si rese necessaria per la Addis Saba e con essa la scrittura. Una ricerca che, è bene precisarlo a scanso di equivoci, non si estingue né si limita a una prospettiva meramente femminile o femminista degli studi, quantunque ai fini del presente studio ci si soffermi principalmente su di essa per lo straordinario valore che possiede:

La dimensione della ricerca di genere, che ho scelto, deve a mio avviso rigettare una concezione chiusa della differenza tra i due sessi, pur tenendo la differenza ferma come criterio metodologico fondante, e anzi all’interno di questa dimensione necessaria, deve tendere a rilevare i rapporti e gli intrecci tra il maschile e il femminile, intrecci evidenti sempre e soprattutto in occasione di momenti drammatici […]” (Addis Saba 1998: IX).

E di momenti drammatici, storicamente o culturalmente parlando, le donne ne hanno vissuto numerosi, tutti colpevolmente in credito con la memoria, il coraggio e la caparbietà del genere femminile. Marina Addis Saba sente che è il momento giusto per tracciare i suoi particolareggiati cammini storiografici e di ricordi, nella speranza di aggiungere nuova linfa agli studi precedenti, senza mai provare a sovrapporsi ad essi perché, come lei stessa afferma, la questione del vivere al femminile necessità di “molteplici punti di vista dai quali la donna può e deve essere guardata” (Addis Saba 1988b: 4). Perché solo abbracciando un concetto di pluralità di vedute è possibile ampliare la superficie di analisi di una questione, sebbene tale molteplicità osservativa debba valicare il muro della storicizzazione prettamente di stampo maschile e, talvolta, maschilista. Leggendo con attenzione i suoi scritti sul fascismo emerge con chiarezza la dinamica di pilotaggio della donna fascista già dall’infanzia, una descrizione minuziosa ci permette di comprendere le dinamiche dell’educazione delle giovani ragazze e donne, i cosiddetti principi cardine che il Regime forgiò per radicare la donna al proprio territorio, migliorarne la sua bellezza, prepararla all’educazione dei figli e all’esaltazione della Patria. Vigeva, quindi, una sorta di illuminata legge del bastone e della carota, un abile raggiro mediante il quale la donna manteneva “tutti quei doveri imposti come naturali espressioni della sua femminilità” (Addis Saba 1988b: 34), ma al contempo si puntava ad “educarla con tutta la forza di condizionamento di una dittatura antifemminista a compiti nazionali e sociali” (Addis Saba 1988b: 34). Tutte le apparenti migliorie offerte al mondo femminile da parte del Regime miravano al consenso delle donne, quel supporto a tutto tondo necessario per mascherare patriotticamente il loro solito ruolo di subordinazione all’uomo.

Accade però che in un clima avverso come quello sopracitato la tempra di talune donne coraggiose riesca faticosamente a tessere le trame di quello che sfocerà a breve nel movimento femminista e la Addis Saba ne dipinge orgogliosamente un quadro minuzioso, che supera le barriere del semplice resoconto saggistico per sfociare in un mare di emotività, oggettività e desiderio di giustizia. Le donne del Regime seppero essere molto più che delle semplici marionette fasciste, guidate dall’alto e falsamente idolatrate da esso: gettarono le basi per movimenti apolitici atti a rivendicare la loro precaria presenza nei settori che contavano e si batterono con tutti i mezzi a loro disposizione, non ultima una parsimoniosa gestione della loro capacità procreativa, punto cardine dell’ideologia fascista. Le sibilline stoccate d’onore e di critica celate sapientemente dietro una prosa saggistica di prim’ordine, ad esempio ne La Corporazione delle Donne o ne La Scelta, riescono a prendere per mano il lettore e ad accompagnarlo nei sentieri scarsamente battuti della questione femminile di quegli anni storici. I tentativi fascisti di soffocare le rivendicazioni femminili non riuscirono pienamente nel loro intento e tra le crepe di questo muro repressivo si infiltrò il femminismo: “già usare il termine femminismo, come esse fanno ripetutamente in senso non dispregiativo, è un atto di grande coraggio in un clima in cui esso è diventato uno di quei bersagli d’obbligo di cui il regime ha riempito la sua mitologia” (Addis Saba 1988b: 64).

Il suo è un antifascismo di cuore, una scelta di vita dettata da un’educazione basata sul senso del giusto; la rigidità della dittatura si scontrava con la determinazione dello spirito della giovane Marina e con il bagaglio culturale che l’amato padre aiutò a forgiare, issato su un piedistallo repubblicano e condito da una passione e un orgoglio tutto sardo. Come poteva affezionarsi a quelle rigide e meccaniche maestre di regime, tutte divise e niente cuore, lei che era cresciuta cullata dall’arte sapiente della mamma e dall’amorevole sguardo liberale del papà? E come accettare l’idea che quelle imposizioni dittatoriali stessero spegnendo l’entusiasmo e la luce negli occhi dei propri cari? Impossibile. Il Regime e gli automi da esso manovrati avrebbero avuto modo di tastare con mano la caparbietà di una donna di grandi valori, camaleontica nel suo burlarsi del fascismo dal di dentro, nella sua capacità di scovare del buono anche nelle situazioni più buie. Poiché solo poggiando la mano sul suolo freddo e duro del dolore ci si slancia verso i tiepidi raggi della giustizia e del sorriso. La chiamavano perseveranza. E così la sua autobiografia, dal titolo eloquente ed evocativo (Non recidere forbice quel volto), potremmo leggerla rievocando quel simbolismo montaliano che si afferra con forza ai ricordi del passato nella speranza che non si affievoliscano col passare del tempo.

Ma se gli anni della guerra reclamavano a gran voce una rivalutazione della donna, non da meno furono gli anni della successiva Resistenza e della lotta armata e di ideali che seguì l’armistizio dell’otto settembre 1943. Rielaborando i pensieri della Saggista, le donne furono forse le prime a realizzare che tale armistizio non avrebbe sancito la fine delle ostilità belliche bensì l’inizio di una più aspra lotta di popolo volta ad afferrare le redini di una Nazione totalmente in balia del proprio destino. Marina Addis Saba ragiona e dipinge pazientemente il quadro femminile di quei venti mesi di orrore, riuscendo con abilità a battere sia il cammino Resistenziale, intrapreso da tutte quelle donne portatrici di odio nei confronti dell’oppressore nazifascista, sia quello repubblichino solcato dalle ragazze che appoggiarono la Repubblica di Salò, perché “da entrambe le parti, si dice, si combatteva in buona fede, per una causa alla quale si era rimasti fedeli, e perciò vanno egualmente considerati i giovani e le ragazze di una e dell’altra parte” (Addis Saba 1998: 145). Ciononostante, dismessa la corazza di obiettiva storiografa, la Addis Saba persona si dimostra grata a tutte quelle donne “partecipi a vario titolo di quel grande moto rivoluzionario che fu per le donne la guerra di liberazione, dalla quale e per la quale si produssero rotture e mutamenti necessari e irreversibili per le donne, nel costume e nelle leggi” (Addis Saba 1998: IX). La lettura del saggio Partigiane: tutte le donne della Resistenza emoziona per profondità di pensiero, per consapevolezza dell’importanza di quel sacrificio femminile e per completezza di informazione, immettendoci in un vortice storico e sentimentale fatto di donne che, contrariamente agli uomini, prediligevano l’uso dell’arguzia e dell’inganno in una lotta che diveniva più psicologica che fisica. Sono tutte quelle donne che diedero vita ad un vero e proprio plotone secondario, meno appariscente rispetto a quello guerrafondaio maschile, autoironico e poco propenso a futili autocelebrazioni, quantunque intelligentemente e cinicamente effettivo. Per l’Autrice sarda è forse questa resistenza quotidiana fatta di piccoli e ragionati gesti, all’ombra dei duri combattimenti sul campo, il motivo principale per cui le donne sono spesso rimaste al margine delle raccolte storiografiche italiane, così vincolate alle mere vicissitudini bellicose e di brigata. Ecco, pertanto, che i vari ruoli al femminile degli anni della Resistenza trovano una meritoria esaltazione nelle sue pagine, come quello della staffetta, la donna coraggiosa finalmente libera di essere sé stessa e di muoversi che mette a disposizione tutto il suo ardore fungendo da collegamento fisico tra bande partigiane, molto spesso in sella al simbolo di libertà per eccellenza: la bicicletta.

Appare evidente che il passato non possa essere dimenticato, esso è tutto ciò che abbiamo e la Addis Saba lo valorizza talmente tanto da scolpire uno spazio personale ed emotivo nella letteratura italiana per tutti quei personaggi storici o politici che seppero far vibrare le corde dei suoi sentimenti. Lo fece nel modo a lei più congeniale, sotto forma di saggi capaci di far riflettere e di raccontare storia in modo veritiero. Dalle affascinanti pagine dedicate alla vita della valente anarchica, femminista e dottora dei poveri Anna Kuliscioff, che trovarono terreno fertile nella prestigiosa giuria del Premio Tobagi nel 1993, si passa ad un sentito ricordo di quell’Enrico Berlinguer che ebbe modo di conoscere, assieme a Giovanni, nelle lunghe e piacevoli scampagnate domenicali, durante le quali la spensieratezza dei bimbi prendeva il sopravvento sui timori degli adulti. Come non citare un luogo simbolo della sua infanzia, il Vivaio Bianchi, un posto idilliaco nel quale incontrare un personaggio carismatico, timido ma sicuramente non triste come Berlinguer rappresentava una fantastica tappa tra un gioco e una scorpacciata di frutta fresca, tra un sorriso e una corsa in aperta campagna. E poi c’è la parte garibaldina della Saggista, quella ereditata dal nonno che, in giovane età, aveva avuto il piacere di conoscere l’Eroe de i due mondi, quella che riempì di gioia il suo animo alla caduta della Monarchia in favore della Repubblica e quella che traspare lungo tutto il corso della sua autobiografia.

Eppure sembrerebbero essere due gli individui che occupano un posto speciale nel cuore dell’Autrice, due uomini diversamente eroi sebbene entrambi capaci di smuoverla dall’interno, due grandi passioni meritevoli di elogi, pensieri e saggi dedicati, che in momenti diversi rischiararono il suo cammino. Il primo rappresentò per diverso tempo il prototipo dell’eroe sardo, del balente1 coraggioso che con le sue imprese riuscì a restituire onore e dignità al povero e oppresso popolo sardo, del valoroso antifascista che sfidò la morte pur di restare fedele ai propri ideali: Emilio Lussu. Il combattente di Armungia catalizzò l’attenzione della giovane Marina come nessun’altro personaggio, reale o immaginario, riuscì a fare; persino il suo amato Pinocchio dovette inchinarsi all’intrepido sardo:

Nessuna lettura e nessun eroe mi piaceva come Lussu, neanche il prediletto Pinocchio, Lussu era per me un giocoliere che tirava fuori di tasca le pistole una dopo l’altra, che si travestiva e sfidava i cattivi, mille volte chiedevo il racconto delle sue imprese e altrettante volte mio padre, se era in vena, raccontava” (Addis Saba 2004: 11)

L’autorevole biografia a lui dedicata valica i confini della mera opera storicistica per addentrarsi in un mondo nel quale sentimenti, ardore, passione politica e ideali si intrecciano in un tutto indivisibile. La sua sapiente penna catapulta il lettore nel vivo del movimento dei combattenti in Sardegna, sinonimo di ricerca spasmodica di armonia e benessere per un’isola ed un popolo ingiustamente barbarizzati da stranieri e continentali2 per troppo tempo, dimenticati da tutti coloro che successivamente non esitarono a richiedere il loro prezioso supporto bellico. Il corpo di combattenti sardi durante il primo conflitto mondiale si riunì sotto l’effige di Brigata Sassari, un plotone che divenne leggendario, unitamente al nome di colui che lo condusse al trionfo, per l’appunto Emilio Lussu. E fu proprio la Brigata Sassari a gettare solide basi per il futuro consolidamento nell’isola di sentimenti indipendentisti e di rivalsa. Ciononostante, quando l’ombra fascista iniziò a oscurare i cuori e le menti del popolo sardo, Lussu venne lentamente lasciato solo, fisicamente e spiritualmente, sempre più isolato dalla comunità, ricercato dalle truppe del Regime, asserragliato in casa con in mano una pistola per difendersi con la solita irridente determinazione. In questa delicata fase di solitaria ribellione nasce il “mito Lussu”, quell’intrepido armato che popolava i pensieri della giovane Marina, il valente che con un colpo di arma da fuoco ricacciò Benedetto Porrà ed il vile attacco dello squadrone fascista alla sua casa cagliaritana, entrando definitivamente nel cuore della nostra Letterata. Quella pistolettata, che di fatto conclude la sequenza bibliografica proposta nel saggio Emilio Lussu (1919 - 1926), segna la sua definitiva entrata nell’olimpo degli eroi guerrieri.

E poi c’è lui, Antonio Pigliaru, il maestro professore che fece breccia nella mente della Addis Saba, che la sprona a credere in sé stessa e nelle sue capacità, che riconosce nell’autrice una donna tenace, una ricercatrice sopraffina e una scrittrice degna di nota. Fu il primo a credere in lei con tanta sicurtà e fu anche colui che la tacciò di illuminista quando, durante una manifestazione universitaria, la Addis Saba manifestò il proprio punto di vista in modo cortese ma diretto. Antonio Pigliaru si dimostrò persona fuori dal comune, un maestro di vita, un professore innovativo che seppe renderla una studiosa, una professoressa e una donna migliore: “A. mi restituì a me stessa, mi guidò con sicurezza, affermò che dovevo scrivere: certo, non la Divina Commedia, ciascuno deve affrontare quel poco che sa e che gli interessa” (Addis Saba 2004: 74). Da appassionato di didattica ho analizzato con estremo interesse le innovazioni di insegnamento apportate dal Professore, novità plasmate sulla sua equipe di studiosi e, conseguentemente, anche sulla Addis Saba; lui rifuggiva dallo stantio e meccanico metodo di insegnamento e di ricerca universitario per abbracciare un approccio maggiormente collettivo e collaborativo, assieme comunicativo e umanistico-affettivo, nel quale il dialogo e la discussione imperavano. La nostra Autrice tastò con mano questo nuovo modo di concepire il processo di apprendimento:

Mi chiamò a lavorare con lui all’università, col gruppo di “discepoli”, già sperimentavamo nuovi metodi, seminari, relazioni di gruppo, persino esami di gruppo, i ragazzi ci seguivano con interesse, ogni cosa era discussa, approfondita, compresa a fondo. Come era bello lavorare così, dopo tanti anni non ero più sola (Addis Saba 2004: 75).

La spinta emotiva alimentata dalla collaborazione con Pigliaru le permise di acquisire maggiore consapevolezza nei propri mezzi e di progredire anche nel suo mestiere di Professora. No, non si tratta affatto di un errore di stampa; nella sua autobiografia la Scrittrice fa orgogliosamente sfoggio di tale termine, beffandosi del tradizionale suffisso –essa e battendo indirettamente i pugni su un linguaggio storicamente misogino e poco gratificante dal punto di vista femminile. Perché anche una frase o una semplice parola possono emanare tutta la prorompente voglia di equità di genere e tutta la necessità di dialogo tra le parti. I preziosi insegnamenti di Pigliaru le consentirono di instaurare degli ottimi rapporti con i propri discenti, di creare con loro un dialogo che andava decisamente al di là del mero insegnamento meccanicistico della materia, adorava farli sentire partecipi del processo educativo, forgiare degli esseri pensanti. Loro percepivano questa empatia e dimostravano interesse ma anche sincera vicinanza emotiva con la propria Professoressa. “Signora, ma veramente d’amore si muore?” le chiesero alcuni studenti nel bel mezzo della spiegazione del canto di Paolo e Francesca, e la sua risposta lasciò trapelare un animo sensibile: “non si muore, no, ma ti sembra proprio di morire” (Addis Saba 2004: 55). E Marina Addis Saba soffre parecchio per amore, come lei stessa rivela nelle intime pagine autobiografiche, una sofferenza in gran parte dovuta alla distanza che si frapponeva tra lei e l’amato, sia fisica che mentale, giacché nessun individuo avrebbe potuto scostarla dai propri valori e dai propri ideali di vita, un’amarezza in parte lenita dalla consapevolezza della propria forza e della propria ricchezza interiore. Neanche il fascismo imperante nelle scuole riuscì a cambiarla, al contrario, rafforzò le sue convinzioni.

Marina Addis Saba non si nasconde dietro a prolissi giochi di parole, affronta temi importanti e spinosi, dimostrando di incarnare alla perfezione quel binomio donna-persona simbolo del miglioramento della condizione socio-culturale femminile. “Io non voglio essere schiava e neppure esser padrona voglio essere soltanto una donna, una persona” cantava Mia Martini nel 1976, un periodo nel quale i temi delle giuste rivendicazioni femminili riecheggiavano prepotenti e speranzosi sul territorio italiano, anni in cui il focus dell’attenzione veniva posto su temi scottanti come quello della violenza sulle donne, una pratica vile, tristemente e largamente ricorrente nei confronti della quale agire legalmente rappresentava l’unica reale ancora di salvezza. Ora, se nel 2013 l’approvazione da parte del Senato della legge contro il femminicidio venne da più parti etichettata come un primo timido passo per arginare un fenomeno deprecabile come la violenza di genere, l’accurata produzione saggistica di sensibilizzazione sul tema della Addis Saba appare un passo coraggioso e dovuto. Le donne cominciavano a ritagliarsi il loro agognato ruolo all’interno della famiglia e della società, erano riuscite a scappare da quella gabbia invisibile di tradizionalismo maschilista che le aveva imprigionate per lungo tempo, avevano già tagliato vari traguardi, “ogni anno infatti, dal 1970, si può dire scandito da una legge fondamentale per la condizione femminile” (Addis Saba 1985: 15). In Io Donna, Io Persona, datato 1985, le tappe del femminismo italiano vengono presentate al lettore in modo squisitamente dettagliato, così come le conquiste dei movimenti femministi e le narrazioni di tragici fatti di cronaca, in un turbinio di parole, sentimenti di rabbia, messaggi di speranza e realistica sofferenza. Insomma, le donne erano ormai stanche di essere trattate come un freddo corpo da utilizzare, come un oggetto di libidinosa perversione dell’uomo e la proposta di legge contro la violenza sessuale del 1979 divenne un primo scalino sul quale innalzare la torre dell’emancipazione femminile. Ma l’animo umano, così imprevedibile e così difficilmente addomesticabile da leggi create ad-hoc per assopirlo, in taluni casi si rivela una macchina cinica e priva di sentimenti, capace di inferire ferite mortali più con gli atteggiamenti che con le armi convenzionali. La cieca furia di alcuni beceri energumeni non trova freni legali possibili e le violenze perpetrate sulle donne occupano ancora le prime pagine dei giornali. Occorre continuare a gridare con forza, scrivere a riguardo, agire in modo sempre più propositivo e sensibilizzare ulteriormente le persone e la Saggista non nega mai il proprio contributo: collabora con il Gruppo Controparola, un’organizzazione di Letterate unite dalla volontà di alimentare l’oculata emancipazione femminile e forgiare una forza reazionaria che ristabilisca un ordine concettuale egualitario sociale e culturale. Questa collaborazione sfocia nella stesura di un libro indagine intitolato Amori Assassini, nel quale grandi nomi della letteratura e del giornalismo d’inchiesta fondono le proprie coscienze e le proprie inquietudini in un testo amaro, denso di rabbia e di delusione, nel quale le ricostruzioni di efferati casi di violenza di genere acquistano un potere che supera i confini della semplice sensibilizzazione della coscienza collettiva, per abbracciare anche un trentennio di conquiste sociali, legali e morali al femminile.

Esiste poi una costante nella vita e negli scritti della Addis Saba che si evince in modo lampante ma non discriminatorio, una continua manifestazione del proprio amore nei confronti della Sardegna, di quell’isola che tante pene ha patito nel corso del tempo e che scruta bellamente l’orizzonte nella speranza che l’arrivo di novità esterne possa finalmente rappresentare un nuovo e proficuo punto di partenza piuttosto che l’ennesima alterazione della propria quiete. L’isola si respira orgogliosamente nelle pagine della sua autobiografia e talvolta tutta la sua fierezza sarda si lascia intravedere, volutamente, nella semantica e nella sintassi della sua prosa. Tra le parole sarde più utilizzate acquista un significato speciale scampuddittu, che equivale più o meno a fare la cresta sulla spesa, ossia, quell’azione che veniva talvolta messa in atto dalla madre dell’Autrice come unico mezzo possibile per l’acquisto di adorni e vestiti per sé, per soddisfare la sua sana voglia di femminilità, per sentirsi esistente in un contesto nel quale la mancanza di un’occupazione lavorativa limitava la propria sensazione di libertà e di autonomia. Nessuno osava sottolineare questi gesti come un rimprovero, non si trattava di un semplice atto egoistico bensì della reale necessità di una donna responsabile di rialzare la propria dignità; ciononostante, la velata umiliazione che traspariva dagli occhi della Signora quando qualcuno si accorgeva di uno scampuddittu resteranno per sempre nell’animo della Addis Saba e contribuirono a indirizzarla sul cammino dell’analisi della situazione della donna nella società e nella storia. Inoltre, quella sensazione di immediatezza e di maggior precisione che porta noi isolani all’uso di sporadiche frasi o parole sarde nelle nostre conversazioni informali, sottolineando il peso nonché il valore emotivo intrinseco a una determinata espressione, traspare anche in Non recidere forbice quel volto; in un caso specifico ho sentito una particolare emozione nella lettura, quando la descrizione del momento in cui la famiglia della Saggista apprende che il Duce era venuto meno e che la Guerra si avviava alla propria conclusione mescola italiano e sardo in un tutto pregno di significato:

L’estate diventava più calda e alla fine di luglio mio padre si prese la malaria terzana, un giorno sì e uno no aveva la febbre alta e tremava tutto; una mattina si svegliò e ci raccontò ridendo «Ho sognato Mussolini, era nel cortile e piangeva, io l’ho fatto per il bene dell’Italia, diceva, quasi mi ha fatto pena»; dopo pochi minuti arrivò agitato zio Felice, il contadino e, entrando da mio padre quasi gridava: «Professò, nacchi è ruttu su Duce”, «È ruttu, è caduto, disse babbo, ma come, è caduto da cavallo?» «Nono, nono, si ch’est ruttu, si ch’est andadu!”. Mio padre si buttò dal letto «ecco cos’era il mio sogno» e si precipitò verso la porta, ma, prontamente fermato, ci mandò, noi bambini, in paese in bicicletta. (Addis Saba 2004: 29)

Il sardo, quindi, come mezzo linguistico di immediatezza emotiva di noi isolani, usato soprattutto nelle interiezioni e nelle frasi che contano per la comprensione subitanea dei nostri sentimenti, principalmente quelli di rabbia. Nei suoi scritti denotiamo un amore sconfinato per i paesaggi, per la genuinità della gente, per la bellezza delle montagne, ma soprattutto per la maestosità del mare. Mare che riesce a decantare adeguatamente nel testo dedicato a Stintino, la ridente località sassarese che seppe accogliere quella giovane “bagnante”3 per farne parte integrante della propria comunità, un volume nel quale storia, ricordi e sentimenti si amalgamano per dar vita a una lettura piacevole e formativa. Colpisce, inoltre, l’accuratezza con la quale la Addis Saba, a quattro mani con la dottoressa Gavina Angela Cappai, ripercorre i mutamenti della condizione femminile in un piccolo paese del centro Sardegna, Borore, dal secondo dopoguerra fino agli anni Ottanta, provando a comprendere in che modo gli scossoni storico-culturali-legislativi che avevano interessato l’Italia in quegli anni avessero mutato gli usi e i costumi delle donne locali, cercando di osservare il loro atteggiamento nei confronti delle leggi sul divorzio e sull’aborto, dei Consultori, del ruoli all’interno della famiglia, per poi offrire delle ragionate conclusioni che si estendono alla donna sarda in generale raffrontata a quella continentale ed Europea. E la lettura dell’elaborato offre vari spunti di riflessione, soprattutto il lento ma inesorabile cambio di mentalità nei confronti del lavoro al femminile, della stretta relazione esistente tra l’ottenimento di un titolo di studi e il riconoscimento del prestigio sociale per le donne, pur certificando come negli anni Ottanta le rivendicazioni e i buoni propositi al femminile aleggiassero pazientemente su una realtà ancora dominata dai saldi valori religiosi e tradizionali di un tempo. Ciononostante, sebbene i “condizionamenti della vita pubblica paesana sono sempre pesanti e tali vengono accuratamente giudicati dalle intervistate” (Addis Saba 1999: 21) si arriva ad affermare con orgoglio che la situazione delle donne bororesi, e più in generale sarde, non fosse dissimile a quella delle donne del nord Italia, attestando una necessità di rivalsa nonché un latente bisogno di autonomia e cambiamento molto più pronunciato rispetto alle donne del Mezzogiorno italiano dell’epoca.

Una radicata sardità che si manifesta apertamente nell’amara constatazione di quell’impotenza tutta isolana di afferrare saldamente le redini del proprio territorio e della propria dignità nei secoli passati, restando in balia degli eventi e degli invasori provenienti dal mare, eterni lettori di un destino scritto costantemente da altri. Marina Addis Saba, da buona scrittrice, ama mettere nero su bianco le sorti del proprio cammino, forgia con tenacia una serie di ideali di vita che mantiene sempre ben saldi, anche quando decide di tuffarsi nell’avventura politica, forse alimentata dall’inevitabile diffidenza verso quei democristiani incapaci di prendere una posizione chiara a favore della Repubblica in uno dei momenti più importanti della nostra storia. In modo inversamente proporzionale al rifiuto per quei politicanti indecisi e opportunisti, crescono in lei sentimenti sardisti ingigantiti e sospinti da tutti quei vecchi canti di ribellione del popolo sardo contro gli occupanti, che riempiono il suo cuore e le conferiscono la forza di esporsi in prima persona: divenne la prima donna candidata al Senato della Sardegna e, successivamente, si propose a membro del Consiglio comunale della sua città. Le vergognose campagne discriminatorie a lei riservate dai suoi “leali” avversari politici, l’ignoranza diffusa e la paura dei cambiamenti sfociarono in due annunciate sconfitte che però non intaccarono minimamente la sua figura, la sua persona e la sua professionalità; le resta il grande merito di aver sfidato un ambiente misogino con la sola forza delle proprie convinzioni e di esserne uscita sempre a testa alta.

Bibliografia

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(1977): Emilio Lussu (1919 – 1926). Sassari: Litotipografia editoriale Cav. A. Poddighe S.p.A.

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(1988a): Garibaldi sardo di elezione. Sassari: Carlo Delfino Editore

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(1996): “Postfazione”. Antonio Pigliaru: cosa vuol dire essere uomini”. Sassari: Iniziative Culturali, 239-242.

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1 In lingua sarda “balente” indica una persona orgogliosa, valorosa e sprezzante del pericolo.

2 I sardi usano questo termine per far riferimento agli italiani della Penisola.

3 Bagnanti era il modo in cui i locali, molto legati alle proprie tradizioni marittime, indicavano i forestieri che si recavano in paese per farsi il bagno e per divertirsi in quel mare che per loro era fonte di lavoro e sudore.

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