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BLOQUE 4. Artistas, mujeres de teatro y espectáculo

“Fissando il mio occhio di avoltoio nelle latebre dell’anima sua”. Adelaide Ristori e la costruzione del personaggio di Elisabetta I d’Inghilterra

Mauro Canova

Università di Genova

a Mayra

Riassunto: Adelaide Ristori (1822-1906), la più famosa attrice teatrale italiana della seconda metà dell’Ottocento, rappresenta un perfetto esempio del «Grande attore». Ebbe notevole successo anche al di fuori dell’Italia con fortunatissime tournées all’estero (Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Sud America). Le cronache del tempo esaltano la capacità di padroneggiare il palco e avvincere lo spettatore. Obiettivo del mio contributo sarà proprio quello di indagare le tecniche recitative della Ristori e le modalità di costruzione del personaggio che andavano dall’analisi psicologica (i personaggi erano sempre donne volitive e forti), alla ideazione della scena e ai costumi. Prenderò in esame un’opera significativa, il dramma Elisabetta regina d’Inghilterra di Paolo Giacometti, mostrando come la Ristori riuscisse a rendere alla perfezione i caratteri delle donne che portava in scena.

Parole-chiave: Teatro italiano; Grande Attore; Archetipi: Scenografia; Costume; Studio del personaggio.

1. Il personaggio

La più celebre attrice italiana dell’Ottocento, Adelaide Ristori (Cividale del Friuli, 22 gennaio 1822 - Roma, 9 ottobre 1906), ebbe carriera assai lunga e ricca di successi in tutto il mondo. Donna eccezionale, la Ristori seppe costruirsi una brillante carriera artistica che andò di pari passo con l’ascesa sociale, coronata dal matrimonio con il marchese Giuliano Capranica del Grillo. Attrice dalla personalità quanto mai complessa, la Ristori fu grandissima interprete comica e drammatica, ma anche eccellente impresaria, capace di controllare ogni aspetto della produzione teatrale, dal testo alla scenografia, dai costumi alla recitazione sia propria che degli altri attori, ma, al tempo stesso, estremamente attenta all’aspetto economico e fu uno dei pochi esempi di attore in grado di sapersi (e sapere) amministrare, insieme al marito Giuliano che aveva già esperienza nella conduzione di teatri in quel di Roma, fino a terminare la propria vita nell’agiatezza, fregiandosi del titolo di marchesa. Il personaggio della Ristori offre quindi numerosi spunti di analisi e molti aspetti della sua attività attendono ancora di essere studiati; a ciò si aggiunga che il lascito della famiglia Capranica del Grillo (attualmente conservato presso il Museo-Biblioteca dell’Attore di Genova), è un’autentica miniera di documenti, lettere, copioni, appunti, disegni di scena, costumi, fotografie, cimeli appartenuti alla Ristori e tutto ciò meriterebbe un lavoro serio ed approfondito al fine di delineare meglio la carriera e la personalità di questa importante figura della storia teatrale, culturale e politica dell’Italia della seconda metà dell’Ottocento.

2. Premessa

Per ovvie ragioni dovendo trascegliere un singolo aspetto dell’arte della grande attrice friulana, ci pareva degno di interesse osservare le strategie e le modalità di “costruzione” dei personaggi che, di volta in volta, ella avrebbe dovuto interpretare. Il tipo di approccio della Ristori non si discostava da quello dagli altri Grandi Attori del XIX secolo (penso ad artisti a lei contemporanei, come Tommaso Salvini ed Ernesto Rossi, nomi importanti al pari della Ristori, autentiche stars del teatro, non solo italiano, di quegli anni). Per entrare nel merito, il Grande Attore ottocentesco non è alla ricerca di un testo teatrale da mettere in scena, ma di un personaggio che susciti l’interesse in primis dell’attore stesso e, di riflesso e conseguenza, possa avere una forte presa sul pubblico. Il Grande Attore pretende che il testo contenga una (e solo una) personalità forte; in questo non è differente da un compositore che operava in quegli stessi anni, Giuseppe Verdi, anch’egli avrà sempre bisogno di centrare le proprie opere attorno a personaggi capaci di catalizzare l’emozione del pubblico e di proporsi quali centri propulsori dell’azione. Non sarà quindi un caso che un autore potentemente suggestivo come Shakespeare venga utilizzato per i suoi drammi organizzati attorno ad un personaggio principale sia dai Grandi Attori su menzionati che dallo stesso Verdi (Meldolesi 1979; Guerrieri 1954) (i titoli balzano subito alla mente: Tommaso Salvini primeggerà nell’interpretazione di Othello, Hamlet, Re Lear, Coriolano; Ernesto Rossi, che amava particolarmente il Bardo, fu interprete assai intenso di Romeo, Othello, Hamlet, Macbeth; la Ristori, che in quanto donna aveva meno personaggi a disposizione, si ritaglierà su misura la parte di Lady Macbeth; mentre per Verdi ricorrono titoli analoghi: Macbeth, Otello, Falstaff oltre all’idea, che non si concretizzò, di musicare il Re Lear). Il Grande Attore sembra identificarsi giocoforza con il grande personaggio, il fascio delle tensioni emotive converge sull’attore e non sul testo che verrà modificato appositamente per andare incontro alle esigenze dell’interprete. Adelaide Ristori non si sottrae a tale pratica ed anzi, in un suo interessante libro (Ristori 1887), scritto in tarda età, nel quale stila un bilancio del proprio lavoro e soprattutto delle modalità di studio del personaggio, l’attrice si sofferma su alcuni ruoli (tra cui Lady Macbeth, Maria Stuarda, Medea, Maria Antonietta, Elisabetta d’Inghilterra...), e sul modo in cui tali ruoli sono stati da lei affrontati.

3. L’obiettivo

Per parte nostra centreremo l’attenzione su una singola pièce, Elisabetta regina d’Inghilterra, opera dall’abile Paolo Giacometti (Novi Ligure, 18 marzo 1816 – Gazzuolo, 31 agosto 1882), nel quale, attraverso cinque atti, si drammatizza la storia della regina Elisabeth I Tudor, secondo una successione di situazioni significative, nelle quali si presentano le tappe significative della politica elisabettiana e i tratti caratteristici della sovrana scanditi dall’incedere del tempo (nel quarto atto la regina ci appare infatti visibilmente invecchiata e nel quinto è ormai prossima alla dipartita). La parte della regina Elisabeth venne commissionata dal capocomico della Reale Compagnia Sarda, nella quale la Ristori recitava come prima attrice, tuttavia, come scrive lei stessa (Ristori 1887: 187), il ruolo, o meglio ancora, il personaggio di Elisabetta, non le era per nulla congeniale. Pur riconoscendo l’importanza storica di questa sovrana in quanto tale, l’attrice non ne apprezzava il carattere, l’indole:

Perché mi accingessi allo studio di una nuova parte, condizione necessaria, assoluta, per me, doveva essere quella, che non solo mi offrisse difficoltà notevoli e preconcette interpretazioni, ma che altresì non riuscisse ripugnante alla mia natura, al mio organismo. Io stavo quindi per rinunziare al proposito di assumere la rappresentazione di quel personaggio. Questa ripugnanza si era andata sempre più sviluppando mano a mano che apprendevo atti crudeli di questa Sovrana, specialmente contro l’infelice Maria Stuarda. (Ristori 1887: 187)

Interessano in particolare due espressioni “condizione necessaria, assoluta, per me, doveva essere quella, che non solo mi offrisse difficoltà notevoli e preconcette interpretazioni” e quella immediatamente successiva che “non riuscisse ripugnante alla mia natura, al mio organismo”. Due sono gli approcci che coinvolgono la Ristori nella scelta di un personaggio da interpretare: uno intellettuale e uno fisico. C’è il gusto della sfida della ricerca, del tentativo di andare oltre le “preconcette interpretazioni”, di superare le “difficoltà notevoli” con lo studio del personaggio; dall’altra parte il dato fisico: occorre che il personaggio sia accettato “dall’organismo”. La Ristori ne fa una questione di carnalità, l’accettazione del personaggio deve passare anche attraverso l’organismo che potrebbe (come in questo caso), addirittura rifiutarlo. E tuttavia, per cause di forza maggiore, per impegni presi dal capocomico, alla fine la Ristori dovette piegarsi allo studio e alla preparazione del personaggio di Elisabeth, giungendo al risultato, come rivela ella stessa, che il pubblico vide in esso uno dei ruoli più riusciti del suo repertorio.

Su queste due direttrici, pur con qualche apparente digressione, sarà impostato il nostro saggio, tenendo presente che la Ristori, nelle sue preziose memorie, si sofferma su entrambi gli aspetti, lo studio dell’aspetto storico, del contesto, l’approfondimento del personaggio attraverso la lettura di saggi specifici, l’analisi psicologica (sempre filtrata attraverso l’intelligenza della stessa attrice, che ha una sua personale immagine del personaggio); dall’altro lato la fisicità: prima di essere portata in scena Elisabeth deve essere “incarnata”, deve trovare una sorta di congiungimento, di osmosi tra i corpi, tra i caratteri, e qui interviene la parte più complessa, che potrà arrivare al pubblico attraverso l’uso del corpo, la gestualità, la prossemica, la mimica, gli sguardi. Infine, come avremo modo di chiarire meglio in seguito, al linguaggio comunicativo non si sottrae il costume, l’uso degli abiti avrà una grande importanza nel processo comunicativo adottato dalla Ristori. Tuttavia, prima di avviare la nostra disanima, occorre dirimere una questione che è stata solo adombrata nelle pagine precedenti, ma che tocca un nervo scoperto della narrazione della nostra attrice. Ci riferiamo, in particolare, alla posizione estremamente critica dell’attrice italiana verso la figura storica di Elisabeth I Tudor. La Ristori parla apertamente di “carattere odioso” della sovrana, e tuttavia, obtorto collo, alla fine accetterà di incarnarsi in Elisabeth, come fece con altri personaggi femminili che, quanto ad amabilità e simpatia, erano anche peggio: Medea, Lady Macbeth, Fedra, Mirra… (Sestito 2006: 76). Insomma da parte della Ristori, a dispetto di quanto lei stessa afferma, c’è una chiara ricerca di ruoli scabrosi, di eroine negative, di donne che vivono situazioni spesso “oltre il limite”, nell’esercizio o nella ricerca del potere o nella pratica o nel desiderio dell’amore. Personaggi tragici che la nostra attrice abbraccia quasi con voluttà fingendo di aborrirli. Tale dato getta una luce nuova sulla Ristori che, per ragioni di rispettabilità, dichiara di sentirsi lontana da tali caratteri femminili, mentre poi si cala volentieri nella parte. Atteggiamento che ritroviamo anche nell’approccio al personaggio di Lady Macbeth: insomma, la Ristori, per riprendere in parte il titolo del nostro saggio, fissa il suo “occhio di avvoltoio nelle latebre dell’anima”, scruta nelle pieghe più riposte dell’animo delle sue eroine per ritrovarvi e amplificare i tratti più spaventosi e crudeli della loro personalità. Fino a che punto, viene da chiedersi, l’attrice crea ex novo una personalità basandosi su testi storici e quanto, invece, ritrova di se stessa nell’ansia di potere, nella vertigine di dominio, nel piacere di manipolare sentimenti torbidi e incestuosi, nell’imposizione della propria volontà a figure maschili che le si offrono come prede o schiavi dinanzi alla sua superiore abilità, scaltrezza, seduzione, intelligenza femminili? Questa straordinaria donna che ha saputo condurre la propria vita come una partita a sacchi, senza sbagliare una mossa, cogliendo, a prezzo di estenuanti fatiche, tutti gli obiettivi che si era prefissata, questa donna-manager, alfa e omega dell’impresa teatrale che lei stessa aveva saputo promuovere, organizzare e condurre con notevole abilità, dietro la patina di madre esemplare e moglie devota, artista moralmente irreprensibile e al tempo stesso figura attoriale inarrivabile, si concedeva sul palco le maggiori libertà trasportando e lasciandosi trasportare dalle fantasie più inconfessabili dinanzi al proprio pubblico. Non vogliamo cadere nella facile trappola del biografismo spicciolo, nell’appiattire il personaggio sull’attore o viceversa; è ovvio che il rapporto è ben più complesso, la Ristori non va alla ricerca di un personaggio, tanto è vero che inizialmente i taluni casi li affronta con dichiarata riluttanza, diremmo piuttosto la Ristori va alla ricerca di un’Idea di femminile, si misura, si auto analizza, investe il personaggio con la complessità e le infinite sfumature della propria personalità, fino a renderla patrimonio collettivo. Prima che il dramma borghese conquisti le platee dell’Europa con le sue figure nevrotiche e bloccate in ruoli codificati dal contesto storico, la Ristori dà voce alle ultime manifestazioni di un inconscio archetipico: di lì a pochi anni il grande regista dell’inconscio, in uno studio medico di Vienna, allestirà in modo ben più analitico, ben altro genere di teatro (Cuppone 2006: 110-112).

4. Le “pose sceniche”

Una volta che il personaggio è stato organizzato sulle istanze psicologiche più congeniali all’attrice, occorre trovare le modalità di rappresentazione. Come sappiamo, la Ristori era un’attenta osservatrice delle sculture classiche, dalle quali traeva ispirazione per la composizione di forme statuarie ed espressive attraverso le quali imprimere negli spettatori l’essenza di un carattere, di uno stato d’animo, di una tensione psicologica. È appena necessario ricordare che Antonio Morrocchesi nel 1832 pubblicava, a Firenze, le Lezioni di declamazione e d’arte teatrale (Morrocchesi 1832) e, venti anni dopo, Alamanno Morelli dava alle stampe il Prontuario delle pose sceniche ([Morelli 1854], nei quali si mostrava, in apposite illustrazioni, le principali posizioni ed espressioni riferite a determinate situazioni emotive (Jandelli 2002). “Pose sceniche”, queste, recuperate dal manuale di Morrocchesi, che non vanno intese quali semplici fotogrammi, ma momenti di contenuto emotivo, ipostasi di uno stato d’animo definito che l’attore, incarnandolo e fermandolo con e nella sua persona, lo porgeva agli spettatori. Come avremo modo di vedere, anche la Ristori organizza la propria recitazione inanellando, con sapiente e calcolata abilità, con fine e preveggente gusto alchemico, una serie di “pose sceniche”. Le quali sono sempre il culmine di un’azione, riassumono in sé l’intero percorso psichico cha ha portato a quella situazione, compendiano una strategia che in modo progressivo presenta azione, testo, scenografia in una costruzione perennemente in movimento che alterna climax ed anticlimax, intervenendo direttamente sull’animo degli spettatori.

da Antonio Morrocchesi, Lezioni di declamazione e d’arte teatrale: Inique stelle; Orribil vista!

Vale quindi forse la pena di approfondire, di passaggio e rapidamente, il lavoro dei Grandi Attori (e Attrici) dell’Ottocento, valutando il modo di operare di questi interpreti capaci di influenzare in maniera determinante la concezione teatrale europea dei decenni futuri. Differenti sono i contributi che hanno tentato di inquadrare l’approccio al personaggio e le modalità recitative del Grande Attore, tra questi vale la pena di citare i saggi di Claudio Meldolesi e Ferdinando Taviani (Meldolesi; Taviani 1991), di Roberto Alonge (1999), di Roberto Trovato (2003) e, più recentemente, di Elena D’Angelo (D’Angelo 2012). È affascinante lasciarsi sedurre dalle letture proposte dagli studiosi, l’arte del Grande Attore ottocentesco ha dato modo di avanzare differenti soluzioni interpretative: Taviani parla di clichés figurativi che sintetizzano e mettono in forma riconoscibile il contenuto emotivo, la passione e il carattere del personaggio; la D’Angelo parla anch’essa di clichés, ma in termini affatto differenti, assegnando loro una connotazione dinamica, evolutiva, in una sequenzialità che segue un processo scenico e ritmico; Alonge, per parte sua, si sofferma sull’aspetto naturalistico d’impronta borghese, Trovato, commentando le notazioni di Edward Tuckerman Mason sull’Otello di Salvini, associa numerosi passaggi della partitura mimico-gestuale alla figure retoriche... È probabilmente vero che il Grande Attore ha a disposizione un bagaglio di strategie attoriali per noi difficili da afferrare e codificare, ed è più conveniente tentare non tanto la strada dello sguardo retrospettivo (facilmente distorto dalla nostra visione “informata” delle cose), ma è forse più produttivo opporre a ciò uno sguardo prospettivo, partendo, ad esempio, da Ideen zu einer Mimik di Johann Jakob Engel (Engel 1785-1786), tradotto in Italia da Giuseppe Rasori (1818-1819), e che influenzerà anche il nostro Morrocchesi. In questo saggio in forma epistolare, e precisamente nella lettera VIII, Engel, cercando di definire con maggiore precisione la differenza tra gesto contraffacente e gesto esprimente – il primo è imitazione dell’oggetto del pensiero mentre il secondo rappresentazione del contenuto emotivo – delinea uno dei principi basilari dell’arte attoriale, quello dell’induzione del sentimento. Il gesto contraffacente che imita l’oggetto del pensiero non ha di per sé un contenuto emotivo, si tratta di una semplice disposizione di forme esteriori che descrivono un atteggiamento attenendosi ad un costrutto puramente concettuale e mantenendo un’unica dimensione: quella spaziale. Il gesto contraffacente appare naturale, credibile in virtù del fatto che l’attore, “nell’atto stesso di narrare l’avventura, le sue proprie idee hanno ricevuto una cotale giunta di vivacità, per cui non può fare di non accoppiare l’espressione ai lineamenti del volto e all’atteggiamento delle membra” (Rasori 1818: 57). Ciò che sembrerebbe essere sfuggito agli studiosi nell’analisi delle riflessioni di Engel è l’aspetto filosofico. Da bravo illuminista e, allo stesso tempo, uomo di teatro1, Engel insiste sul concetto di Idea, ed è qui che a nostro parere occorre appuntare l’attenzione: il gesto fermato in un’immagine icastica e significante dal Grande Attore ottocentesco, funziona come un’Idea platonica, come una ἀρχή, però con direzione opposta; detto altrimenti, si procede all’inverso rispetto a ciò che viene teorizzato nella concezione platonica, da esso non discende nulla, bensì tutto in esso va a confluire. Esperienza, osservazione, tensione emotiva, tensione erotica, comicità e tragicità… tutto afferisce al gesto bloccato che raccoglie in sé la totalità delle tensioni prodotte nel corso della scena. Da questo punto di vista le “pose attoriali” ottocentesche funzionano come archetipi junghiani, preesistenti, diremmo quasi, al teatro e che moriranno definitivamente con Antonin Artaud (e su questo si leggano le belle pagine di Jacques Derrida nel suo La scrittura e la differenza (Derrida 1971: 219-254, 299-323). Siamo quindi più vicini all’idea avanzata da Roberto Trovato che parla di figure, di tropi, del linguaggio letterario (Trovato, 2003: 35), piuttosto che al concetto, invero riduttivo, di clichés, che appiattisce e immiserisce la “posa attoriale” in vista, appunto secondo quell’interpretazione retrospettiva cui si accennava sopra, di una successione di immagini, proiettando la recitazione nell’idea della sequenza del montaggio cinematografico che sfocerebbe nelle riflessioni di Sergej M. Ejzenstejn.

5. Il lavoro sul personaggio

Tentiamo ora di fornire alcuni esempi del lavoro della Ristori sempre appoggiandoci su quanto scrive lei stessa nel suo testo Ricordi e studi artistici, non prima però di aver raccontato brevemente la trama della nostra pièce. Per come viene drammatizzata, la storia di Elisabeth prevede una serie di scene che hanno al centro sempre la regina e ne seguono vicende pubbliche e private dai primi anni del regno fino alla vigilia della morte. In maniera davvero sapiente, Paolo Giacometti alterna momenti che vedono Elisabeth nel ruolo di politica e amministratrice del regno a scene in cui la sua personalità si dibatte tra questioni sentimentali e private. Il primo atto è pertanto dedicato all’amministrazione, agli affari di politica interna, ma già nel secondo vediamo entrare l’aspetto sentimentale trattato in termini comici, come rivela la stessa attrice, l’amore, mai apertamente dichiarato, per Robert Cecil conte di Essex, che si mescola a scene di serrato confronto, come quella con Margaret Lambrun, coinvolta in una congiura ai danni della sovrana; ma questo è anche l’atto che vede i preparativi per la guerra contro la Spagna tutta anticipata nel vibrante e minaccioso discorso tenuto verso l’ambasciatore di Filippo II. Nell’atto successivo tutto è dominato dalla vicenda bellica. Dalle notizie riportate da Francis Drake, alla celebrazione della vittoria, dove però, anche qui, si insinua una volontà perversa di Elisabeth, nel tentativo di umiliare Essex, non riconoscendo in misura adeguata il suo valore a dispetto di altri capi militari. Tale situazione permette il sottile gioco psicologico in cui l’amore della donna si trasforma in seduzione dell’esercizio del potere. Il quarto atto vede nuovamente la regina alle prese con la sorte di Essex, ma nel frattempo sono passati molti anni, Elisabeth è una donna sessantacinquenne, e quello che fu il suo amore di un tempo, langue in prigione per manifesta incapacità nel domare una rivolta in Irlanda. Il quarto atto trascorre interamente nell’attesa che Essex invii alla regina l’anello che lei stessa, anni prima, gli aveva donato, ricordandogli che, in caso di necessità, egli avrebbe potuto ottenere il suo favore restituendoglielo. Essex, in effetti, manderà l’anello alla regina, ma i cortigiani invidiosi faranno in modo che esso non giunga troppo tardi a destinazione e la sovrana si vedrà costretta ad emettere ordine di impiccagione per il suo antico amore. L’atto conclusivo vede la regina nel momento della decrepitezza, alle prese con gli intrighi per la successione e i fantasmi del passato che la vengono a visitare: tutte le persone che ha amato e non sono più, tutti coloro che lei stessa ha mandato tra le mani del boia. Ottenebrata nella mente, Elisabeth alterna lucidità a momenti di profonda angoscia nel vedere la propria vita, ma soprattutto il proprio potere, sfuggirle dalle mani. Alla fine sarà lei stessa ad indicare in Giacomo VI il successore al trono e, con un gesto ad effetto, incoronarlo momentaneamente re, per poi riprendersi la corona calandosela nuovamente sulla testa, sottolineando che ciò accadrà solo dopo la sua morte.

Nella sua narrazione la Ristori si sofferma sui momenti più impegnativi e coinvolgenti dell’interpretazione, al punto che negli atti in cui non ci sono situazioni dove ella possa primeggiare, arriva a dire, ad esempio per il terzo atto, che «non contiene per Elisabetta numerose scene d’interpretazione notevole per difficoltà artistica, eccetto due situazioni molto interessanti» [Ristori 1887: 193), mentre per il secondo atto si profonde in ampie esemplificazioni, in particolare il momento in cui si presenta il suo segretario a chiedere il benestare alla sentenza di morte per Mary Stuart. Qui la Elisabeth/Ristori

a stento reprime un’espressione di gioia, ed ipocritamente copre la sua emozione con la larva della pietà, poi subito dopo entra in scena il figlio di Maria Stuarda, Giacomo VI, venuto a chiedere che sia risparmiata la vita alla propria madre. [E qui l’attrice, parlando in prima persona, ci spiega il suo atteggiamento n.d.a.] Coll’espressione marcata del mio volto, collo sguardo bieco e penetrante, colle labbra serrate, mostravo al pubblico la tempesta che s’andava condensando in me. Ma all’arrivo di Davison [il segretario, n.d.a.], il quale veniva ad annunziare ad alta voce che il carnefice aveva mostrata il popolo la testa di Maria Stuart, alla tempesta che tutta la mia persona subiva una completa trasformazione ed un grido di gioia irrefrenabile, mi sfuggiva dal petto, grido […] che tosto io reprimevo, irrompendo con furore contro coloro che avevano che avevano fatto eseguire la sentenza. Con la stessa rapidità improntavo istantaneamente sul mio volto tale espressione esagerata di dolore, tali smanie insensate, da trarre in inganno perfino lo stesso Giacomo VI, che non sapeva discernere se vero o finto fosse il mio dolore. (Ristori 1887: 191)

E ancora, appena dopo, arriva Francis Drake fornendo informazioni sulla flotta spagnola nella prossimità della fatale battaglia, nuovamente la sovrana subisce o impone al suo carattere, un ennesimo mutamento: “[l]a morte della Stuarda, i proponimenti ipocriti, la falsa politica, tutto essa metteva in non cale, invasa solo dall’ansia febbrile di conoscere il risultato della missione affidata al Drake” (Ristori 1887: 192). Come si intuisce, tutto ruota attorno ad Elisabeth e le entrate degli altri attori e comprimari servono unicamente a sollecitare nuove e sempre inusitate reazioni della Grande Attrice, che lavora “su se stessa”, imponendosi repentini cambiamenti d’umore, a volte misurandosi anche nel presentare due sentimenti contrastanti che vengono a manifestarsi in contemporanea o in rapida successione, e che ella utilizza come strumenti utili ad amplificare la sua straordinaria abilità.

6. La scenografia

A questo sottile gioco emozionale non si sottrae la scenografia. Si confrontino gli schizzi per il primo e secondo atto e quello per il terzo2. Si tratta di documenti importanti, dove, come si vede, sugli spazi bianchi del foglio, in alto, la Ristori ha scritto di suo pugno alcune indicazioni circa gli oggetti che devono comparire in scena e sulla loro posizione. Si noti che negli atti iniziali del dramma il trono è in scena, ma, per così dire, sommerso e confuso tra altri oggetti di scena mentre nel terzo atto esso è in primissimo piano e posto in rilievo, quasi aggettante la platea. È una Elisabeth/Ristori più aggressiva, non a caso è l’atto della dichiarazione di guerra alla Spagna. Ma si ponga attenzione alla differenza con la scenografia del quarto atto, molto intimistico, dedicato all’amore perduto, al suo Robert Cecil che lei stessa ha mandato a morte e che ora, a distanza di anni, rimpiange. Le due poltrone sono lontane, sullo sfondo, come se non fosse opportuno mostrare al pubblico l’amore, sconveniente porre in primo piano i sentimenti della sovrana. I recessi dell’animo corrispondono agli spazi più riposti del palcoscenico.

Come si vede, c’è un lavoro di “regia” che va di pari passo con l’allestimento scenografico e col rapporto con il pubblico: nel momento dell’espressione della potenza e dell’autorità del sovrano la presenza fisica dell’attore si dà in pasto alla platea, al contrario, nell’estrinsecazione dei sentimenti aumenta la distanza tra pubblico ed attore, il viso ed il corpo non sono più in primo piano, agli spettatori giungono la voce e i gesti dalle profondità del cuore e dal fondo dello spazio scenico.

7. Il costume

Prima di concludere il nostro contributo vorremmo proporre un piccolo esempio che concerne invece la scelta dei costumi. Anche in questo caso la Ristori è attentissima nell’aspetto comunicativo. Abbiamo la fortuna di possedere alcune fotografie che ritraggono l’attrice nei cinque atti del dramma in cui è possibile apprezzare anche il trucco che la invecchia progressivamente. Tuttavia qui importa soffermarsi su due particolari: mano a mano che l’età avanza, aumenta anche il volume degli abiti e, di pari passo, anche la corona muta la sua forma, divenendo sempre più appariscente. Osserviamo le fotografie.

La prima mostra Elisabetta nell’atto iniziale, la seconda fotografia riproduce la sovrana nel quinto atto. I costumi, che la Ristori ordinava espressamente a sartorie specializzate e che erano straordinariamente ricchi e sontuosi, preziosissimi, vero motivo di attrazione per il pubblico, sono anch’essi parlanti: il peso degli anni e delle responsabilità sono sottolineati dagli abiti e dalla corona che si son fatti vieppiù pesanti e ingombranti, le spalle curve sotto il carico degli anni vengono nascoste da un manto ampio che, come un’armatura, cela la figura della sovrana: invisibili rimangono tutti gli abiti. La gonna, il corpetto, i gioielli, gli sbuffi di tulle che emergono vistosi nella prima fotografia, tutto è celato all’occhio dello spettatore sotto quel mantello-coltre che impedisce di riconoscere una figura, ma che dice tutto della trasformazione subìta dalla sovrana, diventata un’epitome del potere, seduta e fattasi ormai tutt’uno con il trono sul quale è assisa.

8. Conclusioni

Crediamo che queste poche notazioni possano dare un’idea sufficientemente chiara del modo di lavorare di Adelaide Ristori che tocca differenti aspetti e ne svela la notevolissima complessità. Insomma prima che la figura del regista occupasse i gangli vitali della fase preparativa e meditativa, il Grande Attore aveva già assunto sulle sue spalle il compito di organizzare il lavoro secondo una pratica consolidata, ma aperta alle evoluzioni e, soprattutto, in linea con lo spirito del tempo. La Ristori aveva ben chiare tutte le dinamiche che partecipano dello spettacolo teatrale e nulla sfuggiva alla sua magistrale abilità interpretativa ed organizzativa.

In tale senso Adelaide Ristori si pone come una delle ultime e straordinarie interpreti di un teatro che, forse ad un livello non conscio, ma certamente non ingenuo, sapeva trasmettere la forza dell’archetipo al proprio pubblico, all’interno di un rito collettivo di condivisione in cui le strutture profonde venivano scosse, sollecitate, chiamate a vibrare insieme a quelle del resto della platea. In una sovrapposizione di piani semiotici, l’attrice affastellava una serie di riferimenti iconici, allusivi e simbolici che andavano a completare la “messa in scena” e di cui noi abbiamo tentato di fornire, per campionature, un piccolo esempio. D’altra parte è palese come la tecnica e l’arte del Grande Attore rimangano, a nostro parere, un campo di studio ancora da sondare e parzialmente aperto a nuove interpretazioni, non solo attoriali ma anche per quelle che sono le sue dinamiche socio-antropologiche. E tuttavia, osservando, con occhio attento e disincantato, le fotografie che ritraggono Ristori – ma anche Salvini e Rossi – impegnati sulla scena, non si può negare che da essi promani un’intensità ieratica e potente, capace di affascinare ancora oggi noi osservatori contemporanei, un’arte affinata e trasmessa lungo decenni di esperienze, in grado di scardinare ed irretire anche la coriacea etica dello spettatore borghese dell’Europa del XIX secolo e che solo il Novecento, con la messa in scena di ciò che Freud definirà come patologico, andrà gradatamente spegnendosi nei sussulti nevrotici di Eleonora Duse, portatrice di una recitazione che, non a caso, la Ristori (e con lei Salvini), non sapranno più apprezzare né comprendere, come si ricava dal celeberrimo scambio epistolare, davvero fin de siècle, tra i due attori3:

Tommaso Salvini, 27 novembre 1889

Carissima Marchesa, […] Se avete un po’ di tempo da perdere (il che non sarà facile), ditemi sinceramente che ne pensate di questa nuova forma d’interpretare la nostra arte! Ai nostri tempi si faceva meglio o peggio? Sono peggiorati gli Artisti, o il pubblico? Siamo noi che avemmo torto, o lo hanno loro? Io non me ne so formare un’idea; e siccome non pretendo di dare un parere giusto, essendo parte interessata, così per rendermene conto vi consulto.

Ed ecco la risposta della Ristori:

Roma, 29 dicembre 1899

Carissimo amico mio, […] Volete sapere quello che io penso di questa nuova interpretazione dell’arte nostra? Molto male! La nevrosi è la malattia che sconvolge il cervello umano in questo fin di secolo! Il pubblico è attaccato da questa orribile malattia e guasto il vero gusto del bello nell’Arte rappresentativa. In genere gran colpa ne ha la politica scapigliata che guasta il cervello e ne sconvolge i sensi. La moda delle toilette, il lusso degli abbigliamenti, colpiscono lo spettatore e non gli fanno riflettere se quello che vede sulla scena promuova degli scatti giusti e naturali. Io, modestamente, sono d’avviso che l’attuale forma di interpretazione è falsa e acrobatica! E che noi dobbiamo essere orgogliosi di essere stati quello che fummo, seguaci della verità e della manifestazione della grand’arte.

È il 1899, l’anno della pubblicazione della Traumdeutung (Freud 1899, ma 1900), l’anno che sancisce la “messa in scena” su carta stampata della nevrosi, che vuole corpi “agitati” (acrobaticità), e rilassatezza delle membra, e la Ristori, nel notare tutto ciò, non può non sottolineare che i metodi di recitazione sono sbagliati, perché “si ricerca e si vuol riprodurre la verità così come si presenta nella vita ordinaria di tutti i giorni. Ora questo non è il compito dell’arte, l’arte deve, nel riprodurre il vero, spogliarlo da tutte le volgarità” (Fortis 1897). Mirella Schino (1990: 75-79), commentando le parole dell’anziana attrice, si sofferma sul dato tecnico, e forse non coglie doverosamente ciò che trascende la mera apparenza e va, invece, all’essenza: il corpo, che è carne e marmo allo stesso tempo nella sua dimensione classicamente statuaria (Cuppone 2006: 109) e non abbandonata alla rilassatezza; l’energia, bloccata e colta nel gesto anziché sciorinata nell’acrobazia; la verità, che rimanda ad un assoluto e non all’ordinaria e transeunte quotidianità: tutta una serie di indizi che non possono che portarci ad un concezione compostamente illuministica e neoclassica, archetipica, dicevamo, della recitazione: fors’anche aristocratica se si vuole, ma che la Ristori, meglio di chiunque altro, seppe incarnare.

Bibiliografia

ALONGE, Roberto (1999): Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento. Roma-Bari: Laterza.

CUPPONE, Roberto (2006): “Incenso e «Mirra». Ipotesi sulla grande attrice ottocentesca”, (Angela

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1 J. J. Engel (Parchim 1741-Berlino 1802), professore di filosofia morale, influenzato dall’insegnamento di Lessing, come si avverte nelle sue opere teatrali ma anche nella riflessione teorica (il citato Ideen zu einer Mimik; Idee su di una mimica), fu direttore del Teatro Nazionale di Berlino dal 1787 al 1794.

2 Le illustrazioni degli schizzi della scena e le fotografie dell’attrice sono tratte dalla monografia di Teresa Viziano (Viziano: 2000).

3 Entrambe le lettere sono conservate presso il Museo-Biblioteca dell’Attore di Genova e pubblicate a cura di Mirella Schino [Schino 1984: 128-130, corsivi nel testo].

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