Mujeres de letras: pioneras en el arte, el ensayismo y la educación
BLOQUE 2. Pensadoras y filósofas

Maria Zambrano ed Elena Croce: quando una amicizia fa la politica

Elena Laurenzi

Universidad de Barcelona

Riassunto: A partire dalla quarantennale amicizia che legò Maria Zambrano ed Elena Croce, il mio intervento vuole mettere a fuoco il valore politico che l’amicizia assume nelle riflessioni e nella vita stessa di Maria Zambrano. Attraverso l’analisi delle lettere e l’esame delle imprese intellettuali che unirono queste due grandi figure del 900, si delinea una concezione profonda e originalissima del rapporto amicale, in netta controtendenza rispetto alla declinazione che assume la riflessione sull’amicizia nella tradizione occidentale, da Aristotele a Derridda.

Parole chiave: María Zambrano; Elena Croce; Amicizia politica; Corrispondenza filosofica.

Puisque tous les hommes conviennent des charmes de l’amitié, pourquoi dans un intérêt commun tous ne s’entendent-ils pas, ne s’unissent-ils pas, pour en jouir? C’est un effect du dérèglement des hommes de s’aveugler sur leurs veritables intérêts.

Anne-Thérèse de Marguenat de Courcelles, marchesa di Lambert, De l’amitié.

Nessuna filosofia, nessuna analisi, nessun aforisma, per quanto profondo, può avere un’intensità e una ricchezza di senso paragonabili a quelli di una storia ben narrata.

Hannah Arendt, L’umanità in tempi bui.

E’ già politica

La riflessione sull’amicizia nella prospettiva femminile poco può derivare dalla letteratura filosofica esistente. La prima ragione, uggiosa, è vero, ma ancora tristemente attuale, è che nella tradizione filosofica e moralistica l’amicizia femminile non solo non è contemplata, ma è anzi –esplicitamente o implicitamente– esclusa, con argomenti che attengono alla mancanza, nelle donne, di quelle virtù virili che fondano il «canone greco-cristiano dell’amicizia», quale, con variazioni significative ma anche con tenaci continuità, si è andato perpetuando da Aristotele a Cicerone, Montaigne, Kant, fino a Blanchot e Bataille.1

A fronte di questa secolare evizione, il fatto di rendere pubblica la relazione di amicizia tra donne, affermandone il significato e il valore per il mondo comune, «è già politica», come proclamavano le femministe riunite nei gruppi di autocoscienza di trent’anni fa.2 Ma l’amicizia tra donne non è solo stata lo spirito animatore del movimento femminista nelle sue diverse fasi; nel corso della storia, è stata il cemento di innumerevoli comunità femminili che hanno sfidato le convenzioni, le norme e le leggi per vivere «vite di creativo disordine».3 Queste «comunità di elezione» –ha argomentato Marilyn Friedman– suggeriscono vie politiche alternative al bivio cieco che pensiero dell’attualità sembra aver ereditato dal secolo XX: l’individualismo della teoria liberale, da una parte, e, dall’altra, il comunitarismo di ritorno, con la sua esaltazione dei vincoli identitari nazionali, “etnici” o familiari, che costituiscono –per donne e uomini– una pericolosa deroga alla libertà di definizione e ridefinizione della propria persona in rapporto agli altri. Proprio quella libertà che è la qualità rara, preziosa e imprescindibile dei rapporti di amicizia.

La centralità dell’amicizia nella vicenda personale e politica di María Zambrano – testimoniata tra l’altro dalla voluminosa e intensa corrispondenza oggi conservata nell’archivio della Fondazione a lei dedicata – contrasta con l’assenza di suoi scritti sul tema. Possiamo tuttavia trarre indicazioni sul valore politico dell’amicizia a partire dal concreto vissuto ed esercizio dell’amicizia che unì María Zambrano ed Elena Croce. Questa peculiare prospettiva implica uno spostamento dell’attenzione, rispetto alla trattatistica recente su amicizia e politica: non si tratta qui di cercare nell’amicizia, intesa come teoria o come concetto, una salvazione per la politica in crisi, un modello per la democrazia malata. Si guarda invece al fatto concreto di una amicizia che, nel suo esercizio, ha fatto politica, o è stata politica. E questa una scelta di metodo che, come ha ben indicato Marisa Forcina, è, a sua volta, una scelta politica:

Il più importante, che riguarda una questione di metodo è [la] scelta che pone “i fatti” come protagonisti. Questo protagonismo dei fatti implica una scelta e un’indicazione politica non equivocabile. Indica una scelta dichiarata per la libertà. I fatti, più che essere duri e incontrovertibili, davvero sono fragili e sono soggetti a scomparire e ad essere rimossi, anzi vengono più spesso addirittura distorti e trasformati nel loro contrario. E’ più facile inventare una realtà, costringerla negli schemi che ci facciamo nella nostra mente, farla bella o brutta, o adattare la realtà sulla base di narrazioni già strutturate e santificate, piuttosto che far parlare i fatti; è più facile pretendere di parlare noi dei fatti e pretendere di interpretarli, piuttosto che lasciarli essere quello che sono in tutta la loro pesantezza e irreversibilità, ma anche libertà e responsabilità che ci insegnano ad assumere.4

Un fatto, dunque, ci interpella e ci chiede di essere considerato nella sua delicatezza e labilità e insieme nella sua gravità e densità, ma soprattutto nel suo nucleo incandescente di mistero irriducibile a ogni speculazione. Ed è tanto più così perché “il fatto” in questione è un’amicizia: quindi, qualcosa d’ineffabile, impenetrabile, prodigioso, un fluido che circola inesplicabilmente tra le persone, e che non a caso i Greci cifravano sotto le fattezze del daimon.5 L’amicizia è per definizione irriducibile alle leggi dell’analisi sociologica e anche psicologica, non obbedisce a criteri generalizzabili, non esiste moneta che possa definirne il valore di scambio. Appartiene per di più alla terra libera tra pubblico e privato, che è la più dura da dissodare con gli strumenti della teoria. «L’amicizia non vuole storia ufficiale», scriveva in questo senso Elena Croce.6 Eppure nel mistero dell’amicizia, nel fatto dell’amicizia, affondano le radici del nostro vivere in comune; radici di cui abbiamo perso la cognizione, presi come siamo dalla frenesia di analizzare per lungo e per largo i brandelli della democrazia, nella speranza di poter ricucire un tessuto di convivenza. Si può dunque essere d’accordo con Augusto Illuminati quando argomenta che la tensione che avvicina le persone senza fonderle e che si manifesta nell’amicizia è tanto più degna di indagine, quanto più, a rigore, è «indicibile ed eccedente ogni formulazione concreta», poiché in essa si mostra «l’origine inestinguibile e rimossa del legame sociale».7

Raccontare una storia può essere il modo, forse unico, per avvicinarci a questo “indicibile”.

Un’ amicizia essenziale

La storia dell’amicizia tra Elena Croce e María Zambrano, così come ci viene consegnata attraverso le lettere che le due autrici si scambiarono nell’arco di quasi 40 anni,8 risale agli anni ’50, quando María Zambrano, esule dalla Spagna franchista, approdò da Cuba a Roma insieme a sua sorella Araceli. La casa di Elena Croce era il luogo di ritrovo di un circolo di personalità le più diverse tra loro, espressione del suo profondo e vivido interesse per le persone, al di là dei ruoli, delle gerarchie e delle norme accademiche. Tra i frequentatori c’era un folto nucleo di artisti, scrittori e studiosi profughi dalla Spagna, ma anche dalla Germania, dalla Grecia, dai paesi dell’Est europeo e, più tardi, da quelli dell’America Latina. Quest’attenzione letteraria e politica nei confronti degli intellettuali proscritti, travolti dalle bufere belliche e post belliche, rispondeva all’impegno indefesso di Elena Croce nel difendere l’autonomia della cultura, che lei intendeva come «condizione vitale della libertà tutta»,9 e alla sua convinzione che «la coscienza europea, caratteristica di un mondo delle culture che avevamo visto oggetto di persecuzioni e di sterminio, dovesse essere riconquistata, sia pure con molta fatica e lentezza, e anche pazienza nel riannodare le fila».10

La collaborazione tra Elena Croce e María Zambrano maturò rapidamente in uno scambio reciproco, attivo e fecondo.11 La scrittrice italiana, infaticabile promotrice di iniziative culturali, circoli, associazioni, riviste, trovò nella filosofa spagnola una formidabile alleata capace di svolgere, con generosità, perspicacia e spirito anticonformista, un’intensa attività di collegamento sia con gli ambienti culturali dell’America Latina, ai quali restava legata dopo il soggiorno a Cuba, sia con quelli della Spagna dell’“esilio interiore”, con cui dall’Italia iniziò a riallacciare i rapporti. La vediamo tessere la sua tela, come una Aracne infaticabile, per promuovere, attraverso il rapporto privilegiato con Elena Croce, riviste e case editrici minori e pioniere, e autori tanto immensi quanto sconosciuti, quali José Lezama Lima, Alfonso Reyes, Luis Cernuda, José Bergamín, Emilio Prados, José Ángel Valente. Questi e molti altri nomi che punteggiano la corrispondenza, compongono una costellazione di spiriti per i quali la cultura fu una forma d’intervento «nella difesa della libertà del mondo»:12 un atto rischioso, pagato a caro prezzo.

Elena Croce considerava María Zambrano «la personalità più eminente» del gruppo degli spagnoli: «una geniale figura di filosofa con tratti, intensamente poetici, di profetessa, che la faceva rientrare nella grande tradizione mistica spagnola: salvo che era stata, e rimaneva, politicamente appassionatissima».13 María Zambrano, a sua volta, fin da subito ammirò in Elena Croce la «presencia clara» nella quale affiorava la profondità, una peculiare «circulación de la vida», «un pensamiento que no se estanca». 14 Eppure l’amicizia maturò lentamente, come un frutto di tarda estate. Nel 1959, quando già la filosofa spagnola contava sei anni a Roma e ne erano trascorsi quattro dalla prima lettera che ci è pervenuta, ancora nello scambio regna il trattamento formale del “Lei”. Il passaggio al “tu”, repentino e definitivo, non marca soltanto una maggiore prossimità, ma l’aprirsi della relazione a un affetto autentico e profondo, accompagnato com’ è da espressioni di sollecitudine, di nostalgia, di premura: «La vostra partenza mi affligge…noi ci sentiamo impoveritissimi»; «Gracias por tu tarjeta maravillosa que en tan breve espacio tanta alegría trae»; «Il piacere – grandissimo – che mi fanno le tue lettere è avvelenato dalla preoccupazione della vostra salute. Per voi ci vuole al più presto la pessima aria di Roma!»; «Muy presente te tuve a la entrada del nuevo Año al que ritualmente uno se recomienda pidiéndole dones para las personas de amistad esencial como la tuya »…

Per María Zambrano l’Italia fu «la casa, el centro. Nuestro lugar natural». E non c’è dubbio che “la casa” fu, in primo luogo, lo spazio accogliente dell’amicizia di Elena. Tuttavia nel giugno del 1964 venne raggiunta da un decreto di espulsione, e nonostante l’intervento di Elena Croce che, attraverso Giolitti, riuscì a ottenerne la revoca, l’episodio determinò la sua decisione di abbandonare l’Italia per trasferirsi con Araceli nel piccolo villaggio di La Pièce, nella Svizzera francese.

Questa brusca partenza, sancita da un foglio di via e bollata con il marchio dell’ “indesiderabile”, riapriva per Zambrano la lacerazione della fuoriuscita dalla Spagna, replicando l’esperienza della persecuzione, degli interrogatori, dei sospetti, ora alimentati –secondo la testimonianza di Augustín Andreu– dall’oscura trama tra il «guante de seda de la Democrazia Cristiana» e la rudezza di un’Ambasciata Spagnola «nerviosa», che continuava a considerarla come una «roja peligrosa».15 Le vicende triviali di liti condominiali e di denunce anonime indirizzate contro la presenza esorbitante dei gatti nell’appartamento delle due sorelle, che ufficialmente motivarono il provvedimento di espulsione, contribuirono anch’esse a risvegliare il trauma, poiché era dall’esperienza dei campi di concentramento e dello sterminio che Araceli derivava l’ossessiva propensione a offrire rifugio e cura alle creature che, ai suoi occhi, più ne avevano bisogno, le più derelitte: i gatti randagi delle rovine.

Elena Croce si adoperò in tutti i modi per favorire il ritorno dell’amica spagnola in Italia. Dette fondo a tutte le sue influenze, ma soprattutto mobilitò la sua vulcanica «immaginazione creatrice» e la sua qualità di fine mediatrice, che Zambrano le riconosceva con tanta ammirazione. Grazie alla rete di relazioni da lei intessute a partire dalla creazione e la direzione di Italia Nostra e la difesa del patrimonio artistico ed ambientale, e attraverso il Comitato di Aiuto agli Intellettuali in Esilio da lei espressamente creato, ottenne l’approvazione di un progetto volto a costituire nella villa La Ginestra di Torre del Greco, dove Leopardi aveva composto il suo ultimo canto, un luogo simbolico dedicato alla cultura in esilio e che potesse albergare le sorelle Zambrano.

Il progetto, portato avanti con tenacia per tre anni, non si realizzò a causa della lunga malattia e poi della morte di Araceli. E i successivi tentativi di María Zambrano di tornare a stabilirsi a Roma naufragarono, nonostante la sollecitudine di Elena e di altri amici che si adoperarono per risolvere i problemi di ordine logistico ed economico. La laconicità delle sue lettere lascia trasparire ragioni profonde, di ordine animico e spirituale prima che materiale. La «malinconica constatazione che s’imponeva», e che Elena Croce registrava anche nelle sue memorie, era che «il tempo era ormai del tutto nuovo, e il suo colore incerto rendeva incerte anche le relazioni che si stringevano in un’atmosfera, ormai, di fredda e impacciata “socialità” alla quale chi si era formato in un ambiente così diverso come quello dell’antifascismo, stentava ad assuefarsi».16

Le lettere di Elena riflettono sempre più questa trasformazione dei tempi: i motivi quasi ossessivi della sua crescente disillusione manifestano il montare del suo pessimismo e della depressione. Il punto centrale che la preoccupa è il trionfo del conformismo: «il potere dell’uniformità, la prepotenza –che è sempre fortissima– della piattitudine», e dunque la perdita del senso della persona nel suo rapporto con il mondo, il disprezzo per l’individualità quale fonte di libertà e di responsabilità. «Ogni comportamento spontaneo e individuale viene ormai considerato come inopportuno, eventualmente ridicolo», si lamenta nei suoi ultimi Appunti.17 E di fronte al monopolio della cultura di massa, con il suo portato di «fatalistica rassegnazione» e di «apocalittica impotenza», il suo sguardo si proietta, con disincanto, anche sul passato, quasi a smentire quel fervore di speranze e illusioni che aveva animato i suoi progetti degli anni addietro: «Era ormai troppo difficile darsi ragione della cecità di quegli anni successivi al dopoguerra, in cui avevamo continuato ad attendere con grande fiducia il manifestarsi di nuove, e, si sperava, grandi risorse d’immaginazione creativa, mentre era cominciato, in forma ancora larvata, il processo esattamente inverso, che apriva già la strada all’avvento del gelo millenaristico».18

A María Zambrano la vecchiaia riservò una sorte meno amara: il ritorno in Spagna nel novembre del 1984, il crescente riconoscimento della sua opera, l’assiduità e la collaborazione di alcuni giovani scrittori, poeti e artisti della generazione della post-guerra, crearono attorno a lei un’atmosfera rarefatta di sereno appagamento. Non conosciamo, purtroppo, le parole che fu capace di trovare per lenire la sofferenza dell’amica italiana: le sue lettere s’interrompono nell’aprile del 1979. Sappiamo che la salute precaria e la progressiva cecità sospesero quasi del tutto la sua intensa attività epistolare. Però Elena rimase sempre per lei una presenza viva, cui puntualmente, come in un dialogo differito ma d’immutata intensità, inviava ogni libro pubblicato. Ed Elena non mancava di cogliere quel segnale di prossimità, ricevendo la spedizione non come la protocollare procedura editoriale, ma come l’invio di una «parola alata», «curatrice» a lei – anche a lei – destinata. Fino alla fine desiderò un rincontro con María. La sua ultima lettera data 18 gennaio 1990, e contiene ancora un appello all’amica, il cui sguardo lucido e compassionevole appare come una luce, nel tunnel della depressione:

E vorrei tanto poterti vedere, e avere il piacere di un lungo colloquio con te: le cose su cui tu, col tuo mirabile intuito, potresti illuminarmi sono tante: a cominciare dal fenomeno, che da tempo ormai ci affligge, dell’attuale incapacità (che qui da noi si è manifestata in misura paralizzante) di esercitare la narrativa […]. Ma in tutti i campi si ha l’impressione che imperversi una grande “siccità”. Mi piacerebbe tanto, cara María, sentire come tu interpreti la desolazione dell’attuale panorama: col tuo sguardo lungimirante.

A questa lettera estrema, Maria Zambrano dà una ultima estrema risposta19: il biglietto del 16 marzo 1990, scritto a macchina da qualcuno per lei e da lei firmato con tratto tremulo, contiene una promessa di amicizia che trascende ogni confine di spazio e di tempo:

Carissima Elena, cuanta alegría el poder comunicar contigo. Un viaje para mi ahora es impensable, pero una comunicación en el tiempo sí, siempre cara Elena. Con il tuo pensiero io avevo sempre il sentire dell’Universo.20 Hasta pronto, pues, y hasta siempre, cara Elena.

Tra personale e politico: la cittadinanza come mediazione di un’altra donna

Il progetto della Ginestra, concepito da Elena Croce per restituire a Maria Zambrano non un semplice ricovero, ma una sede, un luogo di riconoscimento pubblico, è paradigmatico di una disposizione tutta femminile a riformulare la cittadinanza con gli strumenti dell’amicizia, e di una capacità di operare quella che Francesca Brezzi ha chiamato una «poetica della integrazione».21 Spesso si è parlato della specificità dell’agire dell’amicizia come superamento della logica utilitaria della politica asservita all’economia o alle logiche della difesa identitaria, ma lo si è fatto nei termini un po’ asettici della “purezza”. In questo senso, Augusto Illuminati, richiamando il concetto aristotelico di virtù e la sua intima connessione con quello di amicizia, ha evocato «l’esercizio di un’attività tanto più pura e non strumentale in quanto tendenzialmente coincidente con la contemplazione, identica con la vita compiuta e la felicità».22 Tuttavia la contemplazione è un’attività solitaria e autosufficiente. Mentre, ispirandosi alla figura di Antigone, Brezzi interpreta la sfida delle donne sul terreno della legge come un tentativo di cambiarne i termini attraverso la philia, che si concretizza in un agire non inspirato a un ideale astratto di giustizia né a un aristocratico distacco sufficiente a se stesso, ma a una saggezza pratica (phronesis) intesa come intreccio di giustizia, amore, responsabilità, speranza, utopia.23

Più che un’azione disinteressata e pura, il progetto della Ginestra appare un’autentica alchimia, un crogiolo in cui sono sapientemente miscelati ingredienti personali e politici, ambientali e culturali, ragione e ispirazione, pragmatismo e immaginazione. «Tu imaginación es creadora –scrive María a Elena– es decir, que se conjuga con la realidad enalteciéndola y con un buen sentido que rebasa el tristísimo “sentido comun” que tanto enuncian en nombre de “la realidad” precisamente los que no saben ni saber quieren que lamente es razón con inspiración».

Per questo Zambrano osserva anche, senza convenzionalismi, che la mancata attuazione non rappresenta un fallimento: il senso, il valore del progetto non è tutto proiettato sul risultato, secondo la logica del profitto, ma risiede in primo luogo nell’intenzione che è la sua scaturigine, e nel processo che esso mette in atto. La salvazione poetica del reale che Zambrano perseguiva nel suo filosofare viene qui realizzata dal gesto di amicizia di Elena, che opera il prodigio della fecondazione della realtà attraverso l’immaginazione: «esa identidad transparente y viviente hacia la cual la vida toda aspira». Quel gesto mette ordine nel disordine delle leggi e delle normative ufficiali, e riallaccia una continuità tra passato presente e futuro, sanando la lacerazione aperta dall’espulsione. La cittadinanza che esso procura per l’esiliata repubblicana non è solo simbolica e affettiva, ma pubblica e ufficiale: prevede un diritto a risiedere, a operare, a essere assistita in un territorio, tra la sua gente. Eppure quella cittadinanza sancita per legge diviene effettiva solo perché è offerta dall’azione mediatrice di un’altra donna, dell’amica:

Si la villa Leopardi hubiera estado a la venta y yo hubiera dispuesto de medios para adquirirla, lo habría hecho para nunca habitarla; si me hubiese sido ofrecida para habitarla por una persona que no fueses tu, Elena, no habría aceptado. Solo el que seas tu me da certidumbre de que me sea verdaderamente destinada, aunque yo no lo merezca. Creo que no te lo había expresado así, tan clara y escuetamente, y el hacerlo ahora me hace mucho bien. Pues que es cierto, y no solo cierto si no decisivo. Solo tu puedes ofrecer algo así, y a mi, concretamente. Solo por venir de ti no me siento usurpadora, sino humilde habitante de aquel lugar. Y debajo de estas palabras hay un sentir muy l°cido que no debe expresarse en toda su profundidad. Ya me entiendes.

Della philia greca, l’amicizia tra Croce e Zambrano mantenne l’attributo del dialogo, la pratica di un discorrere che è politico perché si occupa del mondo comune: un mondo che, come osserva Arendt, «rimane ‘inumano’, […] finché delle persone non ne fanno costantemente argomento di discorso tra loro».24 I progetti editoriali (collane, riviste, programmi radiofonici) a cui insieme dettero vita e che curarono con pazienza, fiducia e «calore artigianale», costituirono un gesto politico in questo senso del «fare mondo», perché essi procurarono uno spazio condiviso, trascendente gli spazi chiusi e barricati delle politiche nazionali,25 dove il discorrere tra amici sul mondo e sulla difesa della sua libertà potesse circolare, avere un luogo, un diritto di cittadinanza. Così commenta Maria a Elena, a proposito della creazione della rivista Settanta:

Pienso en la Revista, en todo lo que tendréis que esforzaros para que salga. Nadie ajeno a estas cosas puede imaginarse el esfuerzo, la atención, la imaginación, la memoria... todo lo que es necesario para que una Revista salga a la luz. Cuesta mucho menos escribir un libro propio. De ahí que cada día las gentes que deberían promover revistas, publicaciones colectivas, renuncien a ello, encerrados en su libro, en su Obra. Mas ello forma parte del egoísmo de la época –de la illiberalidad– es un espejismo. El otro día en una conversación me encontré diciendo que lo más hermoso del liberalismo es la liberalidad –pensando en esos tétricos liberales de mi patria. ¿Cómo se puede ser liberal sin abrir y mantener un espacio, una casa para la libertad?

Il gusto della diversità

Un’altra lettera di Zambrano ci colpisce perché dichiara esplicitamente il valore politico dell’amicizia, affrontando la questione dalla prospettiva del negativo: osservando cioè, la degenerazione della politica incapace di assumere l’amicizia:

Pensava en la ceguera que se derrama sobre los entregados a la acción y especialmente si es política: cómo quedan incapacidados para la amistad, por ejemplo, pues que no son capaces de percibir ni de sentir a las personas individuales, y mientras despliegan esfuerzos inumerables por el grupo o por alguien individual, mas en función de grupo, son insensibles para el individuo que sufre y se halla en peligro [...] andan en una especie di velocidad que les impide detenerse en una persona que no forme parte de un grupo político. Bien entendido que “el obrero” es siempre un grupo, tres o cuatro son ya una unmensidad, la clase entera toda. En suma me preguntaba con cierta angusta, si la acción y especialmente la política no conduce a esta mirada colectivizadora, que acaba por secar lo concreto y viviente. Pero me acordé de ti, de que en medio de tu actividad te he visto siempre lucidamente viendo todo lo que te rodea de cerca y de lejos, con intacta y aguda visión.

Troviamo in questo passo mirabilmente sintetizzata l’idea che la politica debba apprendere dall’amicizia il delicato tratto con l’individualità, la pratica sottile di una relazione che si centra sulla singolarità unica e irriducibile di ogni persona.

L’amicizia –potremmo dire utilizzando le categorie arendtiane– fornisce l’ispirazione per una politica che illumini il «chi»: ovvero, che metta al centro e dia valore e riconoscimento all’identità inedita di ogni persona, quale viene alla luce solo nella relazione con gli altri, manifestandosi nel mondo comune attraverso la parola e l’azione.26 Ma se la persona è, in questo senso, un valore, al di là delle sue determinazioni sociali, Arendt riflette anche sul fatto che nella relazione di amicizia queste ultime non possono essere eluse con l’affermazione astratta di un universalismo inconsistente (non amo l’amica o l’amico in quanto è un “essere umano”); l’amicizia insegna piuttosto ad attraversarle, a metterle in tensione, e, così facendo, a trasformarle. A questo proposito, nel discorso pronunciato nel 1959, in occasione del conferimento del Premio Lessing, Arendt rievocava l’esperienza del terzo Reich, quando l’amicizia tra ebrei e tedeschi era una relazione potentemente politica, capace di sfidare le barriere identitarie:

Perciò, nel Terzo Reich, […] una legge che proibisse ogni rapporto tra ebrei e tedeschi poteva essere elusa, ma non smentita da uomini che negassero ogni realtà alla distinzione. Dal punto di vista di un’umanità che non abbia perso il solido terreno della realtà, un’umanità nella realtà della persecuzione, essi avrebbero dovuto dirsi: tedesco, ebreo, e amici. In tutti i casi in cui a quell’epoca un’amicizia del genere è esistita […] in tutti i casi in cui è stata mantenuta nella sua purezza, ossia senza falsi complessi di colpa, da un lato, e falsi complessi di superiorità o di inferiorità, dall’altro, si è prodotta una scintilla di umanità in un mondo divenuto inumano.27

Oggi, lo scenario evocato da Arendt appare rovesciato nel melting pot della società “multietnica” e delle politiche del multiculturalismo, dove, a fronte del montare del razzismo identitario, l’esaltazione della “tolleranza” o anche la valorizzazione astratta delle “differenze” manifesta un’ identica incapacità di amicizia politica: di una politica intesa come condivisione del mondo e come apertura al dialogo che spiazza, e che è disponibilità (e anche piacere) a lasciarsi interpellare.

A me pare che l’amicizia tra Elena Croce e Maria Zambrano realizzi in modo compiuto questa vocazione propria dell’amicizia che è messa a valore della diversità concreta, sensibile, vivente, non affermata in un piano ideologico, bensì esercitata come pratica. In questo senso essa suppone anche la smentita di quel modello della «convenienza», che Montaigne derivava da Aristotele e sintetizzava nell’immagine dell’anima unica in due corpi.28 Un modello ancora intriso di narcisismo, perché di fatto si gratifica di ciò che nell’amico esiste come riflesso di sé, e in lui cerca la conferma delle proprie virtù. Tra Elena Croce e María Zambrano il rapporto si alimenta piuttosto del piacere per quanto nell’altra c’è di peculiare, di più profondamente diverso da sé. Ne sono esempi la fiducia che Elena Croce accorda allo «sguardo lungimirante» intuitivo e premonitore di Maria per orientarsi nell’oscurità dei tempi; o l’«imaginación creadora y mediadora» di Elena, e soprattutto la sua «peculiar elegancia de ofrecer lo más bello y dificil como si nada fuera» che a María Zambrano «embarga el ánimo». Persino la brevitas delle lettere dell’amica italiana, che pure la fa soffrire, acquista un significato positivo nel riflesso del suo sguardo amichevole, quale manifestazione di un «poder de síntesis que es castidad mental, entre otras cosas» e che comunica allegria e pace, perché «es muy hermoso ver lo que se quiere en las personas que se quieren».

L’ammirazione, che è il sentire proprio dell’amicizia, si rivela qui nella sua qualità più intrinseca e preziosa, poiché non è rivolta solo al talento o all’eccellenza dell’altra, ma alla pienezza del suo essere, alla promessa di cui ella è portatrice. Ed è tale la nota dominante, gioiosa, di questo scambio epistolare, che risuona e si propaga nel rintocco festivo dell’augurio che María rivolge a Elena: «Te deseo una primavera mejor. Y que todo a tu alrededor te permita ser como eres, ser la que eres».

Oltre uguaglianza e differenza: la reciprocità del riconoscimento

In un’intervista sulla philia greca, Jean Pierre Vernant dichiara:

L’amicizia è, prima di tutto, l’esperienza della comunità all’insegna dell’uguaglianza. In questa prospettiva molto greca, il rapporto intersoggettivo è anche la condizione necessaria alla costruzione di sé. L’identità si fabbrica con della differenza, allo stesso modo in cui l’ordito e la trama si intrecciano a formare un tessuto. L’amicizia può allora essere pensata secondo il modello del tessuto che unisce ognuno a se stesso al tempo stesso che lo unisce agli altri.29

La metafora del tessuto veicola bene l’idea della comunità non fusionale propria dell’amicizia e il suo rilievo per la politica così come ne abbiamo discusso fino a ora. Ma il passo ribadisce anche un dogma che si perpetua dai Greci e che sembra infrangibile: il principio dell’uguaglianza tra amici: «L’uguaglianza, in effetti, è fondamentale nell’amicizia […] Per un Greco, non si può avere amicizia che per qualcuno che è, in qualche modo, un proprio simile: un Greco verso un Greco, un cittadino con un cittadino».30 Questo ideale aristocratico di uguaglianza, reciprocità e indipendenza marca la definizione classica dell’amicizia e mantiene il proprio carisma nella letteratura fino ai nostri giorni (ancora Nussbaum, sulle orme di Aristotele, definisce l’uguaglianza come condizione prima dell’amicizia).31

Da questo Lietmotif derivano altri due. Il primo è quello della gratuità dell’azione amichevole, e dell’inopportunità o non pertinenza della gratitudine in relazione a essa. Così nel “nobile commercio” dell’amicizia che Montaigne definisce «sovrana», «i servizi e i benefici che alimentano le altre amicizie non meritano neppure d’essere presi in conto; […] l’unione di tali amici, essendo davvero perfetta, fa loro perdere il senso di tali doveri, e odiare e bandire da sé quelle parole che dividono e differenziano: beneficio, obbligo, riconoscenza, preghiera, ringraziamento e simili».32 Il secondo motivo che si sviluppa dalla visione classica è quello dell’allegria come tonalità caratteristica delle relazioni di amicizia, in contrasto con l’ideale moderno che insiste sulla compassione e sulla condivisione del dolore o dell’oppressione. In questo senso, Arendt fa appello all’ideale ciceroniano, a sua volta improntato alla philia greca, per contrapporlo alla fraternità compassionevole che ispira gran parte della politica e delle rivoluzioni del secolo XIX, e scrive: «condividere la gioia è infinitamente superiore rispetto a condividere la sofferenza. La gioia, non la sofferenza è loquace, e il vero dialogo umano si distingue dalla semplice conversazione o discussione per il fatto di essere interamente permeato dal piacere che si prova per l’altra persona e per ciò che essa dice. La gioia, per dir così, dà il tono. Ciò che la rende impossibile è l’invidia, il peggior vizio nell’ambito dell’umanità». 33

La relazione tra Elena Croce e Maria Zambrano sembra smentire, o meglio superare, il dogma dell’uguaglianza e i suoi derivati: l’inopportunità della gratitudine e della condivisione del dolore. Notiamo, in primo luogo, la capacità rara delle due amiche di mettere in gioco, senza superbie né false modestie, senza mortificazione né ipocrisia, le molteplici disparità e disuguaglianze che le distinguono. Nello scambio si manifestano differenze di carattere, di personalità e di stile (sono, con ogni evidenza, due anime ben distinte, nei propri rispettivi corpi), ma anche differenze di prestigio e di potere determinate da fattori diversi e non univoci, e che riguardano lo status sociale e legale (la discendenza familiare di Elena Croce e i suoi rapporti influenti con ambienti intellettuali e politici, in contrapposizione alla povertà, marginalità e anche precarietà legale di Zambrano); la personalità intellettuale (il riconoscimento di Zambrano come filosofa a fronte della vocazione più indefinita di Elena Croce); l’età (Elena è di undici anni più giovane di María, che a tratti gioca il ruolo di sorella maggiore). Invece di essere un ostacolo, tali diverse qualità e condizioni appaiono esaltate dal reciproco riconoscimento, grazie all’indipendenza dello sguardo di entrambe, che penetra nella qualità umana dell’amica al di là delle impalcature e le maschere sociali, ma fa altresì tesoro della sua storia e della sua esperienza. Grazie a questa reciproca e intima libertà, non si produce quella fissità dei ruoli o quella unidirezionalità dell’azione che determina la degenerazione di molte amicizie. L’autorità circola e fluisce, non si irrigidisce in una struttura. E la disparità non si traduce nella subordinazione.

Il riconoscimento reciproco mi sembra la chiave della relazione di amicizia, manifestata dalla storia di Elena Croce e María Zambrano. Perché esso permette di tenere insieme disparità e valore, e di andare oltre la posizione subalterna che oscilla tra invidia e gratitudine.34 E’ dunque per merito di questo reciproco riconoscimento che anche la riconoscenza può trovare luogo ed espressione adeguate; non parla con la voce del risentimento, ma con quella della meraviglia per il dono ricevuto:

Hoy acaba de llegar tu carta desde Roma cuando todavía yo no había encontrado el alma para darte las gracias por la que llegó en el primer correo del Año junto con la preciosa edición de la Ginestra. No se trata de falta de fuerzas físicas, cara Elena, como facilmente comprenderás, sino del pasmo en que nos sume la belleza.

Insomma, cara María, credo che tu sia press’a poco l’unica persona la cui parola ha le ali per quella cosa ormai inammissibile che è il pensiero. Grazie. E’ stata per me una grande gioia.

El que me tengas tan presente, el que cuentes conmigo tanto, es cosa que me conmueve, que me da aliento.

Tra tutte queste nebbie e tenebre, le tue lettere sono sempre soleggiate e vivificanti. Grazie.

Gracias por tu carta, breve, es verdad, mas llena de sustancia reveladora.

Torno a ringraziarti delle tue “note” che sono sempre, oltre tutto, – e grazie alla loro imperiosa vitalità – un grande tonico per l’inclinazione depressiva che da tempo mi affligge

Sono tante le annotazioni gioiose di questa corrispondenza, attraversata dalla allegria che deriva dalla conversazione con l’amica:

Tus cartas siempre me han dado la alegría diáfana del pensamiento, por amargo que sea el fenómeno que captas, el hecho de captarlo tan nítidamente me conforta, me hace respirar;

Entre las alegrías sin mezcla que he recogido de estos meses pasados [...] se destaca la de haberte visto, visto, digo, pues que va más allá, incluyéndola, de la amistad que me has dado. De haberte visto tan solo, sin conocerte personalmente siquiera, la alegría sería grande y sin mezcla, pues que proviene de ti y de que sea posible una acción como la que incesantemente despliegas.

Ma, accanto all’allegria, trovano espressione anche la fragilità, il bisogno, o l’amarezza. E la libertà di lasciarsi andare, di tanto in quanto, a parlare «senza grammatica», o di abbandonarsi allo sfogo, sia pur contenuto dalla reticenza e dalla volontà di preservare l’amica: «Te prometo, cara Elena, no volverte a hablar así […] Pues no se me oculta la indignación que te producirá y aun la congoja», scrive Zambrano, dopo una lettera particolarmente amara.

La libertà e l’autonomia non escludono dunque, in questa relazione, la fiducia e il sostegno reciproco, poiché l’individualità illuminata dall’amicizia femminile non è quella dell’individuo solipsistico –«l’amicizia del solitario per il solitario»,35 la fiera indipendenza che si eleva al di sopra del mondo comune– ma quella che si riconosce (anche) a partire dallo sguardo dell’altra, e che umilmente accetta il dono e la dipendenza. In questo senso è interessante contrastare l’attitudine di Elena Croce e María Zambrano, sempre disposte a incoraggiare, commentare, promuovere e recensire le rispettive opere, con la sprezzatura di Blanchot nel suo testo su Bataille, quando sostiene che «l’amicizia, questo rapporto senza dipendenza […] parla attraverso il riconoscimento della comune estraneità che non ci permette di parlare dei nostri amici […] di farne un tema di conversazione (o di articoli)».36

A contestazione di questa attitudine diffusa di non elogiare l’opera o l’azione dell’amico, e che risponde a un malinteso criterio di indipendenza, valgano le parole scritte da Zambrano in una lettera all’amico Lezama Lima:

Ho sempre sentito, al contrario, che amore, amicizia, affetto, stima, ammirazione per l’opera debbono essere manifestati e non “pudicamente” celati o dati per scontati come un’ovvietà. Ciò significa infatti svalutare tutto questo che è così nobile e bello alla categoria dell’ovvio. Per me nulla di straordinario è mai stato ovvio. E straordinaria è l’amicizia e l’incontro con persone ed opere, ma anche luoghi, in cui spegnere la sete di amore e di ammirazione che, almeno in me, è sempre stata costante e viva, torturante”.37

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1 Cfr. Jacques Derrida, Politiche dell’amicizia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1995. In questo corposo volume, dedicato ad analizzare gli schemi «fraterni e fallologocentrici» che si perpetuano nel «canone greco-cristiano dell’amicizia» e a denunciare la doppia esclusione su cui esso si fonda –l’amicizia tra donne e tra uomini e donne–, Derrida si esibisce tuttavia nell’impresa, davvero mirabolante, di non citare nemmeno un’autrice. E’ assente dalle sue note persino Hannah Arendt, che pure sul tema della assimilazione dell’amicizia alla fraternità, nodale nel trattato derridiano, ha scritto parole luminose, come vedremo in seguito. Dunque anche il pensatore della differance riproduce il canone, e tramanda il paradosso insito nel motto aristotelico da cui prende le mosse («Amici, non ci sono amici!»). L’automatismo dell’esclusione femminile è tale che Derrida non sembra avvedersi del riflesso di se stesso che pure appare nitidamente nel suo commento alla sentenza: «E come per puro caso, appena invece di parlar loro si parla di loro, è per dire che non ci sono più […] Non si parla di loro che in loro assenza e della loro assenza». Ivi, p. 203. Sull’androcentrismo permanente nel pensiero della post-modernità ha scritto pagine definitive Françoise Collin, che osserva come l’enfasi sul “femminile” (un «femminile senza le donne») non disturba la posizione effettiva di uomini e donne, che (coerentemente con tutta la traduzione filosofica) ricoprono rispettivamente il ruolo di soggetto e quello di oggetto del discorso: «Il mea culpa del soggetto fallogocentrico occidentale non riguarda la posizione di chi lo pronuncia». Le donne ricoprono al massimo la funzione di eco, non essendo mai riconosciute nella dimensione dell’interlocutrice, o meglio della locutrice: «Non è mai lei che parla, o da cui si apprende». In altre parole, scrive Collin riferendosi a Levinas, la filosofia può rivolgere la sua attenzione all’«altro» rappresentato dal femminile, ma è un altro «a cui manca la dimensione dell’altezza», e «la cui parola non insegna». Françoise Collin, «Inconnu à l’adresse», Les Cahiers du GRIF, 32, 1985, pp. 107-115, p. 109. Cfr. anche: «Praxis de la différence. Notes sur le tragique du sujet», Les Cahiers du GRIF, 46, 1992, pp. 125-141.

2 E’ già politica. Testi di Marta Lonzi, Anna Jaquinta, Carla Lonzi, Milano, Scritti di Rivolta Femminile, 1977.

3 Marilyn Friedman, «Feminism and Modern Friendship: Dislocating the Comunity», Ethics, Vol. 99, n. 2, 1989), pp. 275-290.

4 Marisa Forcina, I fatti e la libertà, Conferenza stampa al Cineporto di Bari in occasione della presentazione di Triangle, film prodotto da Factory Film con Cinecittà Luce, patrocinato da CGL e sostenuto da Apulia Fil Commission.

5 Jean-Pierre Vernant, «Tisser l’amitié». Intervista a J.P. Vernant di Sophie Jankélévitch, in Sophie Janquélévitch e Bertrand Ogilvie (a cura di), L’amitié, Hachette Littératures, Parigi, 2003, pp. 254-273, p. 261.

6 Elena Croce, Spagnoli nostri a Roma, in María Zambrano, Per abitare l’esilio. Scritti italiani, a cura di Francisco José Martín, Firenze, Le Lettere, 2006, p. 338.

7 Augusto Illuminati, Il teatro dell’amicizia. Metafore dell’agire politico, Roma, Manifestolibri, 1998, p. 30.

8 Elena Croce, María Zambrano, A presto, dunque, e a sempre. Lettere (1955-1990), a cura di Elena Laurenzi, Milano, Archinto, 2015. Il volume apparirà in edizione castigliana per le edizioni Pre-textos.

9 Elena Croce, «Intorno agli intellettuali », Lo spettatore italiano, anno V, n. 5, maggio 1952, p. 206.

10 Elena Croce, «Dal dopoguerra», Prospettive settanta, anno II, n. 3-4, luglio-dicembre 1980, pp. 327-328.

11 Zambrano condivise con Croce molte delle iniziative che quest’ultima intraprese tra gli anni Cinquanta e Settanta: dalla creazione dei «Quaderni di pensiero e di poesia» editi da de Luca e Vallecchi, all’Antologia dei Poeti del Novecento italiani e stranieri, nella quale la filosofa curò la sezione dei poeti spagnoli, fino al suo premuroso coinvolgimento come collaboratrice nella rivista Settanta e Prospettive settanta, frutto maturo della inesauribile immaginazione di Elena.

12 Elena Croce, «Intorno agli intellettuali», op. cit., p. 206.

13 Elena Croce, Due città, Milano, Adelphi, 1985, p. 63.

14 Quando non indicato diversamente, le citazioni si riferiscono alla Corrispondenza sopra indicata. Per non appesantire l’apparato di note, ho optato per non indicare in nota la data della lettera citata quando non sia rilevante per le questioni trattate.

15 Augustín Andreu, «Anotaciones epilogales a un método o camino», in María Zambrano, Cartas de La Pièce (Correspondencia con Agustín Andreu), a cura di Augustín Andreu, Valencia, Pretextos/Universidad Politécnica de Valencia, 2002, p. 363.

16 Elena Croce, Due città, op. cit., p. 48.

17 Elena Croce, «Appunti di riflessioni e impressioni», inedito, citato da Giuseppe Galasso, «Elena Croce: etica e cultura, confessioni e battaglie dell’Italia civile», in AA.VV., Elena Croce e il suo mondo. Ricordi e testimonianze, Napoli, CUEN, 1999, p. 38.

18 Elena Croce, Due città, op. cit., pp. 48-49.

19 María Zambrano morirà il 6 febbraio del 1991; Elena Croce il 20 novembre 1994.

20 In italiano nel testo

21 Francesca Brezzi, Antigone e la philía. Le passioni tra etica e politica, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 291.

22 Augusto Illuminati, Il teatro dell’amicizia, op. cit., p. 40.

23 Francesca Brezzi, Antigone e la philía , op. cit., p. 277.

24 Hannah Arendt, L’umanità in tempi bui, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006, p. 85.

25 La relazione di amicizia tra Croce e Zambrano sfida la politica delle frontiere e si muove tra il locale e il globale, come spesso succede con le alleanze politiche tra donne, che sogliono svilupparsi «al di fuori delle leggi della nazione, o in una transnazionalità […] o in una sfera locale infra-nazionale in cui sono possibili i contatti faccia a faccia». Joana Sabadell-Nieto, «Feminismo y ética de las alianzas», in Marta Segarra (a cura di), Repensar la comunidad, Barcellona, Icaria, 2012, pp. 71-87, p. 72.

26 Hannah Arendt, Vita activa, Milano, Bompiani, 1998.

27 Ivi, pp. 82-83.

28 Michel de Montaigne, «L’amicizia», in Saggi, Adelphi, Milano, 1992, vol. I, 28.

29 Jean Pierre Vernant, «Tisser l’amitié», op. cit., p. 254.

30 Ivi, p. 255.

31 Martha Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Bologna, Il Mulino, 1996.

32 Michel de Montaigne, “L’amicizia”, op. cit.

33 Hannah Arendt, L’umanità in tempi bui, op. cit., pp. 65-66. L’idea è ribadita anche da Nietzsche «Amico – La gioia comune, e non il dolore comune, fa l’amico». Friedrich Nietzsche, Umano troppo umano, § 499, Milano, Adelphi, 1965.

34 Per una riflessione cfr. il volume Tra invidia e gratitudine: la cura e il conflitto, (a cura di Marisa Forcina), Lecce, Milella, 2006.

35 Jacques Derrida, Politiche dell’amicizia, op. cit., p. 348. Come ben nota Derrida, questo ideale indipendente, aristocratico e «sovrano» si prolunga, ben oltre la modernità, nel cuore del pensiero della crisi del soggetto e della sovranità. Così nelle parole di Bataille citate in ex ergo da Blanchot nel suo L’amitié: «amici fino a quello stato di profonda amicizia in cui un uomo abbandonato, abbandonato da tutti i suoi amici, incontra nella vita colui che lo accompagnerà al di là della vita, egli pure senza vita, capace di amicizia libera, staccato da ogni legame». Maurice Blanchot, L’amitié, Gallimard, Parigi, 1971.

36 Maurice Blanchot, L’amitié, cit., pp. 328-329.

37 María Zambrano, Lettera a José Lezama Lima, in José Lezama Lima, María Zambrano, María Luisa Bautista, Correspondencia, a cura di Javier Fronels Ten, Sevilla, Espuela de Plata, 2006, p. 127.

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