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BLOQUE 1. Ensayistas y Literatas

Una voce dal passato: i versi in Titsch di Anna Maria Bacher

Mattia Bianchi

Universidad de Salamanca

Abstract: Dai primi anni ‘80 del secolo scorso, la poetessa piemontese Anna Maria Bacher ha cominciato a pubblicare versi nel suo idioma materno, una varietà della lingua walser denominata Titsch, oggi in serio pericolo di estinzione. Nel tentativo di delineare i tratti distintivi della sua opera poetica, sviscerandone tematiche principali ed immagini ricorrenti, si cercherà di mettere costantemente in relazione l’esperienza letteraria dell’autrice con l’avventurosa storia delle genti Walser che a partire dal Basso Medioevo hanno intrapreso una migrazione colonica che le ha portate a popolare varie zone dell’arco alpino. Inoltre, si focalizzerà l’attenzione su determinati aspetti sociolinguistici che una scelta linguistico-letteraria di questo tipo implica inevitabilmente.

Parole chiave: Poesia; Minoranze linguistiche; Walser; Titsch; Val Formazza; Anna Maria Bacher

Anna Maria Bacher è una poetessa italiana nata nel 1947 a Grovella, frazione di Formazza, piccolo comune situato nell’omonima valle che costituisce l’estrema propaggine settentrionale della regione Piemonte, ai confini con l’elvetico Canton Vallese. Qui, in queste terre di montagna così prossime al cielo si è dedicata per anni all’istruzione dei più giovani e alla conservazione e promozione della ricca cultura locale, con una spiccata attenzione alla lingua. L’interesse suscitato dalla sua figura è infatti strettamente collegato alla sua audace e sotto molti aspetti felicemente anacronistica decisione di usare per i propri componimenti l’antico dialetto Walser conosciuto come Titsch, suo idioma materno e unica forma di comunicazione a sua disposizione prima dell’inserimento nel sistema scolastico italiano. Una scelta questa che Bacher compie a partire dal 1983, quando con l’antologia d’esordio, Z Kschpêl fam Tzit, intraprende la sua carriera letteraria, la quale proprio in virtù di tale scelta ardita risulta meritevole di essere presa in esame dal mondo accademico.

Non è tuttavia pensabile inquadrare la figura di Anna Maria Bacher e provare a delineare quelle che sono le caratteristiche salienti della sua poesia senza fare riferimento, seppur in modo superficiale, alla storia dei Walser, popolo capace di un’altrettanta coraggiosa scelta, ovvero quella di farsi montanaro e di abitare stabilmente, prima di ogni altro, le regioni più elevate e fredde delle “Alpi Somme”.

Quella dei Walser è rimasta per secoli una vicenda avvolta nel mistero; lo stesso alone di mistero che ha pervaso lo spazio alpino sin dall’antichità e che nel Medioevo si è infittito al punto da rendere le Alpi un luogo quasi inviolabile per il terrore generato da credenze pagane e da inquietanti leggende prima ancora che per la rigidità del clima e l’asprezza del territorio. A questo proposito, Enrico Rizzi (1992: 17) ricorda come “i primi uomini capaci di sfidare le antiche superstizioni e scacciare dai ghiacciai e dagli anfratti le potenze malefiche che li infestavano, siano stati i monaci”, tanto che è assolutamente lecito affermare che il sorgere di monasteri ed abbazie nelle terre di montagna più prossime al Creatore “fu determinante nell’apertura della regione alpina verso il mondo circostante” (Rizzi 1992: 19). Tuttavia questa spinta religiosa non è sufficiente a spiegare l’avventura montanara dei Walser, la quale non sarebbe stata possibile se attorno al IX secolo non si fossero parallelamente verificati dei cambiamenti climatici che determinarono un sensibile innalzamento delle temperature ed il conseguente ritirarsi dei ghiacciai. Tale condizione di optimum climaticum permise ad alcune genti di stirpe germanica, o per meglio dire alemanna, allora stabilite nel Vallese di sperimentare per la prima volta la vita ad alta quota, dopo che per lungo tempo erano rimaste “bloccate” dinanzi all’insormontabile ostacolo delle Alpi. Fu così che questo coacervo di tribù originariamente proveniente dal Nord Europa occupò l’ampia valle del Goms (letteralmente “conca”) a oltre 1500 metri d’altitudine. Fu questo un vero e proprio banco di prova che consentì alle suddette popolazioni di mettere a punto specifiche tecniche di coltivazione e sopravvivenza in alta montagna; in poche parole appresero a vivere “in montagna e di montagna” (Zanzi e Rizzi 2013: 8), sviluppando una creatività ed una capacità di adattamento a condizioni estreme che solo un’esperienza simile può fornire.

Successivamente, verso il finire del XII secolo, queste genti intrapresero una nuova diaspora colonica che le portò dapprima a raggiungere i territori circostanti il massiccio del Monte Rosa32 ed in un secondo momento a spargersi un po’ per tutto l’arco alpino, arrivando in tempi sorprendentemente brevi sino alle Alpi Retiche ed al Tirolo.

Dunque, appare chiaro che con il termine “Walser” ci si riferisca a quei gruppi di coloni di origine alemanna che dal Vallese si sono mossi in cerca di terre da dissodare e dove poter sviluppare un nuovo modello di civilizzazione della montagna. Tuttavia, per quanto etimologicamente risulti evidente che “Walser” sia una contrazione di “Walliser” (Vallesani), questa parola nel Basso Medioevo non veniva usata tanto per designare gli appartenenti ad un determinato gruppo etnico ma possedeva una valenza più che altro giuridica e serviva a contraddistinguere il loro status colonico legalmente riconosciuto e che conferiva loro speciali diritti ed agevolazioni. Scrive a tal proposito Rizzi (1992: 151):

E non dovremmo stupirci –abbandonata finalmente ogni concezione “etnocentrica” della storia– se ci capitasse di imbatterci in gruppi colonici non di origine alto-vallesana, tali tuttavia da confondersi con i Walser; e da poter essere pertanto considerati “walser”, superando ogni contraddizione in termini.

Quello che nel Medioevo veniva denominato appunto “diritto walser” altro non era che una particolare estensione del più generale “diritto dei coloni” riconosciuto ai dissodatosi di terre, il quale prevedeva la concessione dei poderi in affitto ereditario oltre che alcune libertà e autonomie amministrative e giudiziarie. Insomma, una serie di incentivi che i signori feudali garantivano a quei gruppi disposti ad accettare l’ardua impresa di abitare terre incolte ed ostili, nel caso dei Walser situate ad altitudini (anche oltre i 2000 metri) che nessuno prima aveva mai scelto di affrontare stabilmente.

Il fatto di disporre del possesso perpetuo delle aree disboscate e messe a coltura con enormi sacrifici, e dunque avendo la possibilità di lasciarle in eredità ai figli a cambio di tasse estremamente esigue ma anche di cedere il proprio contratto ad un altro nucleo colonico, da un lato, svincolava i Walser dall’asservimento alla terra e garantiva loro “la libertà di scegliere, spostandosi come colonizzatori, il luogo del proprio domicilio” (Rizzi 1992: 152), dall’altro, creava “un vincolo forte di pertinenza territoriale, un vincolo di radicamento della persona alla «gleba», ma senza alcuna riduzione in stato di «servitù della gleba»” (Zanzi e Rizzi 2013: 35). Ciò spiegherebbe il profondo attaccamento dei Walser al proprio Heimat: una casa scelta per vocazione montanara, una “patria” costruita a fatica strappandola alla natura selvaggia e poi difesa per secoli dall’incombente minaccia dei ghiacciai e da quella sempre più pressante del progresso e delle contaminazioni provenienti dalla civiltà urbana. Tale elemento caratteristico della civiltà walser risulta di particolare interesse per il presente studio in quanto si ritiene costituisca uno dei punti cardini della poesia della Bacher, come si tornerà a sottolineare più avanti.

Ritornando sulla questione dell’identità walser e sullo spazio semantico abbracciato da questo patronimico, occorre evidenziare parimenti come i coloni del Vallese non avessero assolutamente una coscienza di popolo prima della loro diaspora lungo l’arco alpino; anzi, è stata proprio questa avventura condivisa, la loro estrema scelta ambientale a fornire coesione ai gruppi colonici walser (Zanzi e Rizzi 2013: 59-61) e a far sorgere in essi uno spirito solidale, accresciuto dalla necessità di una comune strategia di sopravvivenza in condizioni di vita disagiate, la quale li portò a sviluppare un modello di civilizzazione delle zone d’alta quota che è divenuto paradigmatico per quanto riguarda la catena delle Alpi e che era basato su una doppia economia:

Da una parte l’economia stanziale: l’agricoltura e pastorizia autarchica dell’“Alpwirtschaft”33, esercitate sul podere dissodato con ammirevole tenacia. Dall’altra invece, altrettanto essenziale, l’impresa colonizzatrice in quanto tale, cioè l’iniziativa semi-nomade di emigrare, disboscare, dissodare. (Rizzi 1992: 169)

Un “popolo” semi-nomade, dunque, dedito ad attività agro-silvo-pastorali e di allevamento, il quale, come si diceva, ha appreso ad abitare stabilmente un ambiente naturale inospitale, configurando uno stile di vita appropriato all’alta montagna ed in assoluto equilibrio con essa (Zanzi e Rizzi 2013: 31).

Principale elemento di omogeneità culturale tra le varie comunità walser, ed unico che ci può permettere di distinguerli in modo univoco in quanto gruppo etnico, è stato senz’altro la loro lingua (Rizzi 1992: 224), variante del tedesco meridionale appartenente al ceppo linguistico denominato “altissimo alemanno”. Una lingua che, benché vissuta e tutt’oggi viva (anche se in serio pericolo di estinzione e già scomparsa da alcuni degli insediamenti originari), ha mantenuto caratteri propri rimanendo discretamente immutata nel tempo rispetto agli altri dialetti tedeschi, se eccettuiamo le inevitabili interferenze delle lingue romanze e non con cui è entrata in contatto e che hanno prodotto vernacoli locali i quali presentano talune peculiarità di cui non è opportuno discorrere in questa sede. Ricorda ancora una volta Rizzi (1992: 224) in riferimento ai Walser ed al loro dialetto arcaizzante:

Il loro tenace attaccamento alla vecchia lingua appare come la volontà di salvare la parte più profonda della loro cultura, quella che l’ambiente con le sue leggi ferree non era in grado di scalfire, che tutte le altre espressioni della civiltà walser sapeva gelosamente racchiudere.

Tale “tenace attaccamento” è poi il medesimo dimostrato da Anna Maria Bacher che non rassegnandosi passivamente al tramonto del proprio idioma materno sta provando a lasciarne almeno una traccia, sia attraverso l’organizzazione di corsi per persone interessate a riscoprire questa antica parlata sia mediante la sua scelta linguistico-poetica, che l’ha portata, inoltre, a dover riflettere ed intervenire sulla propria lingua: un’operazione autoconoscitiva mai semplice, soprattutto quando si tratta di elaborare un’ortografia tanto necessaria quanto difficile da stabilire per un dialetto tramandato per lo più oralmente34 di generazione in generazione e che ha conosciuto una tradizione scritta dal peso specifico limitato35.

A questo proposito, bisogna rammentare come il non trascurabile riconoscimento letterario ottenuto dall’autrice all’interno del mondo walser, in particolare in area svizzera, abbia fatto sì che il sistema ortografico da lei proposto si sia convertito nel tempo in una sorta di modello, di importante punto di riferimento che, spontaneamente, ha influenzato gli sviluppi della scrittura in Titsch, almeno a livello locale (Dal Negro 2010: 32). Costruire e ricostruire in modo coerente il suddetto sistema non è certo stato un compito facile per la poetessa, che durante i primi intenti di dare forma scritta ai suoni appresi durante sua infanzia si è dovuta appoggiare in taluni casi alla grafia della lingua tedesca, una lingua che, sebbene non abbia mai studiato e non parli36, ha naturalmente riconosciuto come prossima alla propria e ha stimato rappresentasse la soluzione più idonea in mancanza di altre fonti a sua disposizione.

Immancabilmente, dubbi di carattere ortografico sono stati sperimentati da tutti coloro che abbiano provato nei secoli37 ad adoperare l’idioma walser con fini artistici, e non potrebbe essere altrimenti per un dialetto -intendendo questo termine nella sua accezione di lingua priva di rilevanza politica e prestigio letterario- che non ha goduto di una forte tradizione scritta e che quindi non ha prodotto un sistema grafico stabile e condiviso. Tale considerazione impone alcune imprescindibili precisazioni concernenti il concetto stesso di “letteratura” in un ambito culturale come quello walser. In un contesto del genere appare lampante, come spiega Paolo Sibilla nella sua introduzione all’antologia Orizzonti di poesia (a cura di Barell, Squindo Tousco, Squindo, Squinobal 1995: 21-28), la difficoltà di differenziare nettamente, nella maggior parte dei casi, tra poesia “popolare” e poesia “colta”, in quanto persino nelle manifestazioni letterarie che potrebbero essere considerate Kunstpoesie, l’elemento popolare e locale rimane evidente, ed inscindibile risulta in tali componimenti il loro essere contemporaneamente chiara espressione del folklore e di valori autoctoni rispetto alla volontà di esporre tali contenuti attraverso un uso mediato del mezzo linguistico ed una maggiore cura della dimensione estetica. In questo senso la stessa elezione del walser è già di per sé un fattore determinante poiché si tratta di una lingua con diffusione assolutamente locale, una lingua che al pari di un vernacolo rimanda automaticamente ad una quotidianità “semplice” e particolare, anche laddove questa realtà diviene punto di partenza o specchio per riferirsi a tematiche che si potrebbero definire “universali”. Ciò non toglie che una parte di tale produzione letteraria abbia raggiunto un livello di elaborazione tale da poter renderla apprezzabile per il suo valore artistico oltre che per il fatto, già di per sé fondamentale, che rappresenti, parole di Sibilla, “un’autentica e significativa espressione di cultura perché trova nella cultura stessa i suoi motivi d’ispirazione, il suo principio e la sua giustificazione” (a cura di Barell et alii 1995: 21).

Questi doverosi chiarimenti tornano altresì utili per inquadrare meglio l’opera di Anna Maria Bacher, poiché sebbene la sua poesia presenti senza dubbio caratteristiche formali ed una ricercatezza estetica propria di una “poesia d’autore”, nel suo immaginario lirico si vede immediatamente, commenta il Prof. Annibale Salsa nella sua prefazione alla raccolta poetica Colpo d’occhio (2015: 6), che “la montagna diventa la metafora dell’esistere”, venendosi così ad unire lo spazio e l’esperienza locali alla sfera dell’universale, mentre parallelamente il passato mitico ed il presente nostalgico si incontrano, e spesso scontrano, attraverso la creazione di un delicato e umile codice simbolico in cui la volontà artistica corre indissolubilmente legata al bisogno viscerale di tramandare e proiettare il proprio dialetto in estinzione e la cultura autentica della sua valle verso un futuro storicamente segnato da attese e timori. E ciò, secondo Paolo Sibilla, risulta un tratto tipico di tutti i componimenti walser, i quali “celebrano una civiltà antica, centrata su di una tradizione che fa appello ad una eredità spirituale e linguistica a lungo custodita” (a cura di Barell et alii 1995: 22-23), tanto che la poesia “ha costituito una delle più efficaci espressioni della «coscienza» del gruppo walser. Gruppo che nel suo essere minoritario, ha sempre avvertito incombente la minaccia di perdere la propria identità culturale” (a cura di Barell et alii 1995: 22-23).

Per addentrarci ulteriormente nell’esperienza letteraria di Bacher potremmo cercare l’ausilio di Peter Zürrer e delle opportune riflessioni da queste proposte nella sua personale introduzione alla poc’anzi citata raccolta antologica di brani poetici in walser dell’area valdostana, intitolata Orizzonti di poesia (a cura di Barell et alii 1995: 40), ma che si ritiene possano essere applicate perfettamente anche al caso della poetessa formazzina:

L’autore che scrive in forma dialettale invece che in italiano (o una qualsiasi altra lingua) fa capire che questa scelta implica:

– un rapporto fondamentale con la comunità che possiede l’idioma impiegato.

– un collegamento con la propria infanzia che è un periodo durante il quale il titsch o il töitschu38 erano acquisiti per poi essere usati come unica lingua.

– un nesso con un sistema culturale minacciato del quale gli autori sono partecipi

– un appello, cosciente o meno, all’esigenza di conservare quel bene rappresentato dal patrimonio linguistico.

Riprendendo e sviluppando i punti sopracitati, si può sottolineare come in Bacher il rapporto con la propria comunità linguistico-culturale di appartenenza sia, pare scontato ribadirlo, più che mai intenso, come dimostrato dal già menzionato impegno profuso negli anni per salvaguardare le sue radici. Il suo appello, del tutto cosciente, appare, però, non tanto focalizzato ad un interesse di conservazione linguistica fine a se stesso, ma sfocia in un sentimento di comunione assoluta con il proprio Heimat, per altro tipico nella civiltà walser. Ciò lo si può evincere da un’analisi contenutistico dei suoi componimenti che, commenta Annibale Salasa, da una parte, “offrono ai lettori, siano essi compaesani o estimatori non formazzini, il distillato di una finezza letteraria in piena sintonia con il contesto ambientale di Formazza” (Bacher 2015: 6), e dall’altra denunciano sovente una doppia paura. In primo luogo quella della nuova avanzata dei boschi, ovvero la natura che tutto inghiotte –“ovunque volgo gli occhi / solo verde che avanza” (Bacher 2015: 93)– e che non può che trasmettere tristezza ad una discendente di quei coloni che con estrema fatica erano riusciti centinaia di anni fa a farsi largo tra quegli spazi selvaggi e prima inabitabili. L’altro timore che subentra, ancora più forte e strettamente connesso al precedente, è quello di essere costretta a vedere la tanto amata montagna ormai spopolata e soprattutto privata della presenza dei bambini, simbolo di futuro; un futuro che per la cultura walser, oggi più che mai, sembra possa essere concepito solo come un “non tempo”, sicuramente non associabile ad un’idea di sviluppo propria della società in cui viviamo. Questa preoccupazione è racchiusa perfettamente nella poesia Wê êscht allts aalts di cui si riporta la traduzione in italiano (Bacher 2015: 31):

Come tutto è vecchio

qui in valle.

Anche i Bambini

sono ormai rari

come le farfalle.

Manca la loro gioia,

e il colore

e la leggerezza.

Nei versi citati risulta evidente, dunque, quella sensazione di minaccia a cui faceva riferimento Zürrer, la quale, come descritto, è percepita da Bacher come un pericolo a 360° per il sistema socio-culturale di cui è erede e che ha deciso di rappresentare attraverso la poesia. Tale minaccia, tra l’altro, ha costituito nei secoli una delle principali fonti motivazionali che hanno spinto i walser a cimentarsi nella letteratura. Difatti, già negli anni ‘90 del secolo scorso, lo stesso Zürrer (a cura di Barell et alii 1995: 39) evidenziava che “negli ultimi decenni è sbocciata una produzione di testi dialettali che è stupefacente perché si realizza in pieno declino dell’uso del titsch e del töitschu”. Ma è sempre il linguista elvetico a precisare immediatamente che “il paradosso si può spiegare come reazione cosciente che mobilita gli sforzi collettivi allo scopo di salvaguardare la lingua e la cultura locale” (a cura di Barell et alii 1995: 39). Pertanto il caso di Anna Maria Bacher non rappresenta un unicum nel mondo walser, almeno per quanto riguarda le intenzioni che soggiacciono le sue inclinazioni letterarie.

Per quanto riguarda, invece, il rapporto con la propria infanzia -ultimo punto che rimane da sciogliere tra quelli segnalati da Zürrer-, il caso di Anna Maria Bacher risulta addirittura emblematico di quella che è stata l’esperienza dei Walser al sud delle Alpi. Racconta l’autrice39 che il suo primo vero impatto con la lingua italiana è avvenuto all’età di 6 anni, quando ha cominciato le scuole elementari, ovviamente italofone e distributrici di una cultura totalmente italiana. Questo scontro con una lingua per lei “straniera” la portò, in tutta la sua innocenza fanciullesca, a domandare al padre riguardo al perché gli altri bambini e le maestre della scuola non parlassero come lei. A tale quesito il genitore non poté che indicare verso l’alta valle del Rodano e dirle che il motivo era che loro venivano da là, dal Goms. Nella spiegazione paterna non figurava, tuttavia, nessun riferimento alla parola “Walser” e questo non deve stupire poiché, come ricorda Rizzi (1992: 32), “solo pochi decenni fa la marcia a ritroso del termine Walser ha raggiunto le colonie a sud delle Alpi: Bosco Gurin negli anni ‘30, Formazza e il Monte Rosa negli anni ‘40-’50”. Infatti, solamente anni dopo Bacher, informandosi e ricostruendo la propria storia grazie anche alle associazioni walser costituitesi sul territorio, è riuscita a dare una risposta più completa ed esaustiva a quel quesito sorto nella sua testa di bambina. Fortunatamente, “oggi tutti i discendenti delle comunità fondate dai coloni provenienti dall’Alto Vallese hanno riscoperto la loro comune origine, e si dicono Walser” (Rizzi 1992: 32). In tal modo anche queste genti montanare, accomunate dal fatto di essere parte della medesima minoranza linguistica e culturale, hanno potuto prendere piena coscienza di un’identità prima solamente intuita o parzialmente conosciuta. Un’identità che era fondamentale riscoprire per poterla adeguatamente proteggere.

Pare ora opportuno puntualizzare un importante aspetto riguardante il desiderio di Anna Maria Bacher di coltivare e difendere le proprie radici culturali attraverso la letteratura in dialetto. Scrivere in Walser è sicuramente già di per sé una scelta pregna di significati tali da convertirla in una parte essenziale del messaggio di cui la lingua si fa portatrice. In questo senso risulta imponderabile negare che una simile presa di posizione sociolinguistica non costituisca intrinsecamente una dichiarazione di intenti che implica il mettere in risalto il sistema linguistico-culturale minoritario difronte a quello egemonico, nel caso specifico italiano. Tuttavia sarebbe erroneo intendere che dietro tale scelta di Bacher vi possa essere la benché minima volontà di rifiuto, rivalsa o “lotta di classe” nei confronti della lingua o della cultura italiane. Anzi, l’autrice rappresenta un esempio di integrazione perfetta tra ambedue le sfere -quella locale/dialettale e quella nazionale/egemonica- poiché, pur coltivando e dando voce al suo lato “straniero”, non rigetta assolutamente quell’italianità che comunque è parte integrante del suo bagaglio vitale e culturale. Quanto appena affermato viene suffragato dal fatto che è la stessa autrice ad incaricarsi di tradurre personalmente le proprie liriche in italiano40. Oltretutto, nei casi in cui il processo di adattamento dei componimenti dal Titsch all’italiano non produce risultati per lei soddisfacenti, preferisce addirittura scartare anche l’originale41, dimostrando una volontà chiara e decisa di creare una sorta di ponte poetico-linguistico-culturale tra i due mondi. Non si può sostenere altrettanto in riferimento alle versioni in lingua tedesca delle sue poesie, la cui incombenza è lasciata a dei traduttori, in quanto, come già sottolineato anteriormente, Anna Maria Bacher non parla e non ha sentito l’esigenza di apprendere tale idioma.

Quest’ultima considerazione può essere presa come spunto per perorare la tesi di chi scrive, secondo cui una poetessa come Anna Maria Bacher debba rientrare di diritto nella letteratura dialettale italiana, nonostante il Titsch che usa per comporre i suoi versi sia un dialetto alemanno. E questo non esclusivamente per la cura particolare con cui ella stessa traduce in italiano le proprie poesie ma ancor prima perché la situazione di diglossia da lei vissuta oscilla tra il dialetto walser e l’italiano -non il tedesco-, sue uniche due possibili scelte linguistiche. Il medesimo discorso, infatti, potrebbe essere applicato a tutti i membri delle varie isole linguistiche walser presenti in territorio italico che vivano a cavallo tra cultura dialettale e cultura italiana e che decidano di cimentarsi in campo letterario usando la lingua walser, ovviamente sempre e quando gli esiti dei loro sforzi siano rilevanti da un punto di vista artistico.

Giunti a questo punto, al fine di fornire un quadro globale ed esaustivo dell’opera di Anna Maria Bacher sarebbe necessario richiamare tutte quelle immagini e quei riferimenti alla realtà naturale –sin qui non ancora menzionati– che sono ricorrenti e risultano come distintivi della sua poesia. Premettendo che la montagna col suo paesaggio, ora coperto dalla tristezza gelida della neve, ora rinvigorito dai colori vivaci dell’autunno “amico” e “amato”, sono i protagonisti incontrastati ed onnipresenti dei versi dell’autrice, si vorrebbe puntare l’attenzione, per le ragioni imposte dallo spazio limitato concesso da un articolo quale il presente, su di un unico aspetto concreto che si considera, però, preponderante se messo in relazione con quanto esposto in apertura di questo studio riguardo all’avventurosa migrazione colonica dei Walser, la quale li ha portati ad elaborare un modello di civilizzazione dell’alta montagna che è divenuto paradigmatico.

Luigi Zanzi (2013: 7-9) spiega che l’alta montagna è un ambiente naturale e culturale diverso e per molti aspetti diametralmente opposto a quello cittadino o comunque “extra-montano”, e pertanto è stata popolata e vissuta dai Walser con modalità di civilizzazione che non sono assimilabili a quelle che caratterizzano le zone di pianura, dove gli schemi di insediamento umano implicano un dominio del territorio circostante, il quale viene sottoposto ad intensi processi di “trasformazione-artificializzazione”. Al contrario, in alta montagna, a causa delle condizioni ambientali, a tal punto estreme, non è possibile un così profondo intervento sull’ambiente stesso ed un suo sfruttamento, dirigendo

L’attività economica verso esiti che superino i livelli di mera sussistenza e di equilibrio propri di una strategia di sopravvivenza. [...] Non può pertanto avviarsi in territorio montano un processo di sviluppo industriale orientato ad una crescita illimitata (Zanzi e Rizzi 2013: 56-57).

Quella walser è dunque un tipo di società basata storicamente sull’autarchia (Zanzi e Rizzi 2013: 24), la quale ha vissuto per secoli in simbiosi perfetta con l’ambiente montano, e che rifiuta intrinsecamente pratiche capitalistiche e post industriali tipiche della nostra civiltà; anche se in tempi più recenti, come logico aspettarsi, si sono verificate violente incursioni “cittadine” che hanno contaminato con il proprio “stile di vita” alcune sedi stanziali walser divenute centri turistici (Zanzi e Rizzi 2013: 57). Tale “stile di vita”, con il retaggio culturale che si porta dietro, non può che stridere con quello originario delle genti montanare. Nella poesia di Anna Maria Bacher, troviamo infatti diversi riferimenti a questo contrasto fra il “suo” mondo alpino e quello cittadino fautore di un nuovo, orribile, sistema produttivo. Uno su tutti è quello alla “mucca”, la quale rappresenta, come ricorda Annibale Salsa, uno dei simboli più forti dell’alpicultura ed è stato “ridotto ad una macchina, costretto ad una stabulazione forzata, privato del proprio segno distintivo delle corna, schiavo della ormai soffocante logica dell’iper-produttivismo seriale e robotizzato” (Bacher 2015: 8).

Tuttavia, il grido di denuncia di Bacher contro questo mondo moderno, cittadino, tecnologico riesce talvolta a prescindere da un codice simbolico prettamente vincolato alla sua terra, ed è forse in questi momenti che la sua poesia si fa per certi versi più “universale”. È questo il caso, per esempio, dei componimenti Noi, indifferenti e soli (Bacher 2015: 17) e Aiuto (Bacher 2015: 25), in cui l’autrice lamenta la separazione tipica del mondo contemporaneo tra la sfera dei sentimenti e quella della razionalità, con la seconda a prevalere tragicamente sulla prima. Ciò, per una persona abituata alla semplice vita dura d’alta quota, marcata dal silenzio e scandita dal tempo ciclico delle stagioni, non può che apparire come un presagio funesto.

Ed è proprio il tempo, quello lineare, come già messo in risalto anteriormente, ad essere uno dei “nemici” atavici della minoranza walser. Un tempo che, suggerisce ancora una volta Annibale Salsa (Bacher 2015: 7) “diventa ossessione del cambiamento, crudeltà allo stato puro. Non possiamo più rifugiarci nella dimensione consolatoria del tempo mitologico. Tutto passa”. Di questo tempo mitologico rimangono solo tracce sparse che nell’immaginario poetico di Bacher prendono all’occorrenza le sembianza delle streghe –“donne del mistero, / donne da invidiare, / donne da bruciare” (Bacher 2015: 63)–, figure leggendarie, riconducibili a credenze pagane che nella cultura walser si sono amalgamate con la fede cristiana e che rimandano immediatamente a quei tempi, rivissuti brevemente nella parte iniziale del presente studio, in cui la montagna, popolata da esseri malefici, incuteva un timore che i Walser seppero vincere per dare il là alla propria storia avventurosa di popolo delle Alpi.

Per concludere questa presentazione della figura di Anna Maria Bacher, non resterebbe che offrire una valutazione critica, oggettiva, sull’effettivo valore letterario della sua opera in Titsch, senza lasciarsi condizionare dal fascino romantico che inevitabilmente suscita una scelta così coraggiosa, “umile” ed in controtendenza rispetto ad ogni cinica legge di mercato.

Premettendo, innanzitutto, che prescindere totalmente dall’interesse sociolinguistico e socioculturale del suo lavoro nel formulare un giudizio di valore sarebbe non solo complicato ma anche metodologicamente incorretto, ci si limiterà a ricordare che parecchie delle sue liriche sono state scelte per essere messe in musica da compositori svizzeri del calibro di Peter Roth, Thüring Bräm e soprattutto il celebre a livello europeo e mondiale, Heinz Hollinger. Questo fatto, oltre al successo ottenuto dalla sua opera all’interno del mondo walser42, sembrerebbe suggerire che l’ambiente accademico debba riporre maggior attenzione su questa autrice, voce sommessa e genuina delle valli al sud delle Alpi, forse e purtroppo canto del cigno di un mondo antico che non si rassegna ad abbandonare senza lasciarne un segno imperituro, scritto su un foglio di carta, usando la lingua del suo cuore.

Bibliografia

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32 Tra gli insediamenti Walser più antichi in Italia si annovera proprio quello della Val Formazza (risalente presumibilmente alle prime decadi del XIII sec.), luogo dove è nata e cresciuta l’autrice.

33 Tipo di transumanza che implica lo spostamento del bestiame tra i pascoli di montagna nei mesi caldi e zone situate ad altitudini inferiori durante il resto dell’anno.

34 La stessa Bacher ha appreso in famiglia, naturalmente, il dialetto walser, ma essendosi formata sin dall’età di 6 anni in un sistema educativo totalmente “italiano”, non ha mai avuto la possibilità di studiarne gli aspetti fonologici e fonetici o di ponderare metalinguisticamente sulle sue strutture, tutte questioni che ha dovuto affrontare da autodidatta, in età adulta.

35 Solo in tempi assai recenti sono stati realizzati tentativi seri rivolti ad uniformare o per lo meno armonizzare i diversi codici di scrittura che le comunità walser italiane hanno elaborato negli anni, spesso spinte proprio dal pericolo di vedere obliato il loro patrimonio linguistico-culturale. A tal proposito cfr. Scrivere tra i Walser. Per un’ortografia delle parlate alemanniche in Italia (presente in bibliografia).

36 È doveroso precisare che questa informazione, come altre riguardanti le esperienze personali di Anna Maria Bacher, la sua biografia o le motivazioni che l’hanno spinta verso la decisione di scrivere in walser sono frutto di un’intervista che chi scrive ha realizzato direttamente all’autrice in data 22/01/2016 presso la sua abitazione di Brendo, in Val Formazza.

37 Le prime testimonianze letterarie in walser risalgono al XVIII sec. (Rizzi 1992: 226).

38 Altra varietà della lingua walser.

39 Vedasi nota 5.

40 Tutte le sue raccolte poetiche vengono pubblicate in edizione trilingue (Titsch, italiano e tedesco).

41 A questo proposito, Kurt Wanner scrive nella prefazione all’antologia poetica della Bacher intitolata Wê im ä Tröim (2006): “Benché i suoi testi siano scritti nel dialetto walser, Anna Maria Bacher li traduce subito in italiano, perché devono essere «usabili e validi» in tutte e due le lingue della sua quotidianità.

42 Successo confermato dai numerosi premi che le sono stati conferiti negli anni, tra cui citiamo il Premio Letterario Val Formazza e il Kulturpreis della Enderlin-Stiftung.