Mujeres de letras: pioneras en el arte, el ensayismo y la educación
BLOQUE 3. Activistas de la historiografía y genealogía feminista

Mulier sine nomine

Raffaela Lo Brutto

Universidad Nacional de Educación a Distancia

Abstract: Il lavoro si propone di analizzare la struttura dei nomi femminili del sistema onomastico latino.I romani avevano un sistema onomastico basato su “tria nomina”: praenomen, nomen e cognomen; il praenomen aveva lo stesso valore del nostro nome individuale, il nomen era il nome della gens e il cognomen indicava il gruppo familiare di appartenenza e poteva avere una funzione simile al nostro soprannome. Dall’esame delle fonti si evince che le donne romane, a differenza degli uomini, non venivano designate con tre nomi propri, ma solo con uno o raramente due nomi: il nome della gens e/o quello familiare; solo poche donne avevano un nome individuale.

Giulia, Cornelia, Flavia, i nomi delle donne romane, non sono infatti nomi individuali, ma nomi gentilizi al femminile; l’uso, sebbene attestato, di indicare una donna con il prenome, ossia come essere umano unico e irripetibile, era una pratica poco comune nella società romana.

Parole Chiave: Onomastica romana; Letteratura latina; Mulier; Praenomen; Nomen; Pseudonimo poetico.

1. Introduzione

Nell’immaginario collettivo romano la mulier veniva considerata come imbecillus sexus (Tacito: III,33) infatti dall’analisi della condizione femminile e del ruolo della donna nella società romana condotta dalla storica Eva Cantarella (2015a: 257-259) si evince che le donne non avevano un ruolo sociale e quando le matrone che vissero durante il periodo dell’imperialismo romano cercarono faticosamente di emanciparsi, incontrarono un’ideologia maschile fortemente ostile che, appellandosi alle antiche tradizioni del mos maiorum, rinnegava la nuova immagine della donna.

La storia della letteratura latina ci offre una copiosa presenza di figure femminili, molto differenti tra loro, ma accomunate, forse, da una sola caratteristica: l’impossibilità di avere una vita consapevolmente equilibrata. I letterati latini nelle loro opere propongono infatti ora un’apoteòsi della donna, per le sue virtù, l’amore che sa ispirare, la bellezza; ora una sua demonizzazione per la dissolutezza, l’immoralità, l’avidità. Al primo gruppo di donne appartengono exempla virtutis femminili come Cornelia, Camilla,Lucrezia, ossia donne caste, pudiche, univirae; al secondo, invece, mulieres come Lesbia, Cynthia, Sulpicia che furono considerate simbolo di dissolutezza.

Tutte queste donne, reali o fittizie, hanno però qualcosa che le accomuna, nessuna di loro viene designata con un nome proprio, nessuna di queste figure femminili storiche o mitiche, rispettose o no del mos maiorum, ha un nome individuale che la caratterizza come essere umano unico e irripetibile.

“Haec ornamenta mea”, con queste parole Cornelia, indicando orgogliosa i suoi figli, rispose ad una matrona romana che ostentava le sue pietre preziose. Cornelia, non è il nome proprio della celeberrima madre dei Gracchi, che rimasta vedova in giovane età consacrò la sua vita all’educazione dei figli. La donna considerata exemplum di dedizione familiare venne chiamata così perché figlia di Publio Cornelio Scipione Africano, il suo non è quindi un nome individuale ma, come la maggior parte delle donne romane (Giulia, Cornelia, Flavia), la madre dei Gracchi ricavò il proprio nome dal nomen della gens a cui apparteneva la famiglia del padre.

Il nome di Cornelia è un esempio di onomastica femminile latina e offre l’input a questo lavoro che si propone di dimostrare che la donna romana è una mulier sine nomine e cioè che quasi tutte le matrone romane, illustri o sconosciute, fedeli al mos maiorum o emancipate, non avevano un nome individuale ma venivano appellate con il nome della gens paterna declinato al femminile.

Se poniamo la nostra attenzione, invece, sul nome del padre di Cornelia notiamo che le fonti per l’illustre generale che sconfisse Annibale riportano ben quattro nomi: Publio Cornelio Scipione Africano, secondo il sistema tradizionale dei tria nomina ai quali, nel caso di personaggi illustri come il nonno dei Gracchi, se ne poteva aggiungere anche un quarto.

Il sistema onomastico dei tria nomina, usato dai romani sin dall’età tardo repubblicana,era valido solo per gli uomini e non veniva esteso alle donne, che erano identificate solo con il nome gentilizio (nomen) spesso seguito da un aggettivo, per evitare omonimie tra donne della stessa gens, oppure dal patronimico o dal gamonimico.

Dopo una breve presentazione del sistema onomastico romano dei tria nomina, costituito dalla sequenza praenomen, nomen e cognomen, ai quali, nel caso di personaggi illustri, si poteva aggiungere anche un agnomen, esamineremo l’onomastica femminile nella letteratura latina e nel suo sviluppo storico all’interno della società romana, dall’uso poco attestato del praenomen in età arcaica all’impiego di pseudonimi poetici, usati da Catullo e dai poeti elegiaci, per indicare la donna amata.

2. Il sistema onomastico romano: i tria nomina.

Il sistema onomastico romano tradizionale fondato sulla formula dei tria nomina si affermò nella seconda metà del I secolo a.C., sul finire dell’età repubblicana, e rimase una caratteristica costante dell’onomastica romana nel corso dei primi due secoli dell’impero.

Dall’età regia alla caduta dell’impero romano d’Occidente (VIII secolo a.C. – V secolo d.C.) l’onomastica nel mondo latino attraversò una serie di cambiamenti provocati dal periodo storico e connessi alla condizione giuridica e sociale dell’individuo. Bisogna infatti fare le opportune classificazioni tra i nomi dei cives romani e distinguerli a seconda che si tratti di uomini liberi, donne libere, stranieri con cittadinanza romana, liberti e schiavi. Infatti, il sistema onomastico tradizionale dei tria nomina si riferisce solo ai cives di sesso maschile e liberi, tutte le altre condizioni sociali e giuridiche meritano un discorso a parte, in primis la mulier.

Nella primissima fase dell’età arcaica l’onomastica latina consisteva nel nome unico, infatti, all’inizio dell’età regia, negli anni del primo monarca, era diffuso il sistema uninominale come dimostra la denominazione del nome stesso di Romolo, fondatore eponimo dell’Urbe, che sebbene fosse di origine aristocratica e divina aveva un solo nome (Peruzzi 1970: 15-17).

Nel corso del VII secolo a.C., dopo la vittoria di Tito Tazio, i romani adottarono il sistema binomio o dei duo nomina (prenome e nome gentilizio) che mutuarono dal contatto con i sabini e che veniva usato al tempo di Numa, come attesta Prisciano (Keil 1855: GLK II 57.13-17) grammatico del VI secolo d.C.:

praenomen est, quod praeponitur nomini, vel differentiae causa, vel quod tempore,

quo Sabinos Romani asciverunt civitati ad confirmandam coniunctionem, nomina

illorum suis praeponebant nominibus et invicem Sabini Romanorum. Et ex illo

consuetudo tenuit, ut nemo Romanus sit absque praenomine.

Alla base di questo sistema binominale, di importazione straniera, costituito da praenomen e nomen c’era la gens, un raggruppamento di famiglie i cui membri avevano in comune lo stesso nomen gentilizio, che corrispondeva al nostro cognome. Questo nomen gentilizio diventò, quindi, l’elemento cardine del sistema onomastico latino, il segno che, secondo Cicerone, contraddistingueva la qualità di gentilis (Cicerone Topica:VI.29), mentre il precedente nome unico, individuale, veniva considerato come praenomen (da prae + nomen), ossia un elemento che è premesso ed accompagna il nome e che Devoto ha definito un “relitto del sistema onomastico anteriore a quello gentilizio” (Devoto 1930-31: 1084).

Nel corso del III secolo a.C. venne introdotto, come ulteriore elemento di distinzione individuale all’interno della gens, il cognomen, il cui uso si affermò nella seconda metà del I secolo a.C. fino a diventare uno dei tre elementi caratteristici del sistema onomastico tradizionale romano.

L’introduzione del cognomen fu quasi una scelta obbligata per i cittadini romani, dovuta ai sempre più frequenti casi di omonimie spesso causati dal limitato numero di praenomina all’interno della stessa gens. Il cognomen, quindi, è ciò che accompagna il nomen (da cum + nomen)e costituisce il terzo elemento della formula dei tria nomina tipica del sistema onomastico romano. Il cognomen, approssimativamente, equivaleva al nostro “soprannome” e in un primo momento serviva ad identificare un individuo che si fosse distinto all’interno della gens e successivamente a individuare i diversi rami di una stessa gens.

Quando i romani avvertirono la necessità di distinguere nuclei più ristretti all’interno della gens fu aggiunto un secondo cognomen, definito agnomen (da ad + nomen), che fu usato come soprannome o titolo onorifico per ricordare ai posteri un’impresa importante. Gli agnomina, dall’esame delle fonti, risultano come secondi soprannomi acquisiti in età adulta in via non ufficiale e pertanto non intaccano il sistema dei tria nomina.

La sequenza praenomen nomen cognomen costituisce la celebre formula dei tria nomina, che rappresenta, la carta d’identità del cives romano della tarda età repubblicana.

Diomede, grammatico vissuto nel IV sec. d.C., in un passo dell’Ars grammatica (Keil 1855: GLK I 321. 3-11) spiega in modo chiaro quali sono i termini tecnici del sistema onomastico latino:

Propriorum nominum quattuor sunt species, praenomen, nomen, cognomen, agnomen.

Praenomen est quod nominibus gentiliciis praeponitur, ut Marcus, Publius. Nomen proprium

est gentilicium, id est quod originem familiae vel gentis declarat, ut Porcius, Cornelius.

Cognomen est quod unius cuiusque proprium est et nominibus gentiliciis subiugitur, ut

Cato, Scipio. Ordinantur enim sic, Marcus Porcius Cato, Publius Cornelius Scipio. Agnomen

quoque est quod extrinsecus cognominibus adici solet ex aliqua ratione vel virtute

quaesitum, ut est Africanus, Numantinus et similiter.

Il testo del grammatico Diomede ci spiega in maniera inequivocabile il nome completo di Publio Cornelio Scipione Africano che nell’introduzione abbiamo riportato come esempio di onomastica maschile.

Dal testo di Diomede si evince anche che il fulcro del sistema onomastico latino è il nomen, come dimostra la designazione stessa degli altri due elementi della formula tradizionale. Il nomen è l’elemento che rivela l’appartenenza di un individuo a una determinata gens o gruppo familiare e che, come abbiamo spiegato, in pratica corrisponde al nostro cognome. Gli altri elementi caratteristici del sistema onomastico romano sono il praenomen, che letteralmente viene posto prima del nomen e svolge una funzione simile a quella del nostro nome individuale o di battesimo, ossia permette di distinguere il singolo membro all’interno della famiglia e il cognomen che, invece accompagna il nomen, e come terzo elemento della formula equivale al nostro soprannome. Il cognomen, fu l’ultimo dei tria nomina ad entrare nell’uso e fu impiegato, in origine e per lungo tempo, quasi esclusivamente dalla nobiltà.

3. Onomastica femminile

La formula dei tria nomina, che caratterizzava il sistema onomastico tradizionale romano, si applicava solamente agli uomini liberi. La società romana, infatti, non identificava le donne secondo le regole del sistema onomastico tradizionale e addirittura non osava attribuire alla mulier un nome individuale e personale che la distinguesse dalle altre dominae. Le donne romane, a differenza degli uomini, venivano designate con un solo nome, il gentilizio, ossia con il nomen della gens paterna declinato al femminile, in alcuni casi il nomen poteva essere seguito da un aggettivo per evitare omonimie tra donne della stessa gens.

L’uso, caratteristico dell’onomastica romana, di identificare le donne con un sistema uninominale, basato solamente sul nomen, si attribuisce ai sabini dell’età romulea, senza escludere però che in ogni epoca la donna abbia potuto avere un praenomen (Peruzzi 1970: 55), anche se generalmente la donna a Roma non veniva quasi mai identificata con il primo nome.

Sull’uso del prenome nel sistema onomastico femminile romano le opinioni degli studiosi sono molto discordanti, infatti Giuliano Bonfante sostiene che i prenomi femminili non siano mai esistiti (Bonfante 1980: 3-9), Kajanto (1972: 13-30) ritiene che siano scomparsi in un periodo “antecedente all’età storica dei Romani”, Peruzzi (1970: 99-128), infine, crede che i prenomi femminili siano sempre esistiti ma i romani preferivano non pronunziarli.

Il cimitero di Praeneste, ricco di epigrafi databili dal IV al II sec. a.C. è una fonte preziosissima per ricostruire il sistema onomastico della donna romana; infatti a Preneste sono state rinvenute 337 iscrizioni e di queste circa 125 si riferiscono alle donne e ci permettono di ricostruire un quadro abbastanza completo del sistema onomastico femminile nel mondo romano (Peruzzi 1970: 57-60).

Dall’esame delle epigrafi gli studiosi hanno individuato diversi tipi caratteristici di onomastica femminile che ci permettono di capire come venivano chiamate le mulieres romane. Le epigrafi prenestine dimostrano che solitamente la donna veniva designata solamente con un nome unico, il nomen gentilizio: Anicia, Aulia, Camelia. In alcuni casi il nomen della donna poteva essere accompagnato dal patronimico, con l’indicazione del prenome del padre seguito dal sostantivo filia, la menzione del nome paterno serviva per distinguere le donne che appartenevano alla stessa gens ma non erano sorelle. Per distinguere due sorelle, invece, si usavano gli aggettivi maior e minor, queste forme venivano considerate cognomina dagli antichi, come testimonia Festo: “minores et maiores inter cognomina feminarum poni solebant” (Festo: 109.9), ma sebbene questi aggettivi venissero considerati come cognomi in realtà erano posti non dopo il nomen, come ci aspetteremmo, ma prima, cioè al posto del praenomen.

Se le sorelle diventavano tre si utilizzavano gli aggettivi numerali Prima, Secunda, Tertia, anche questi aggettivi di solito venivano collocati prima del nomen al posto che spettava al praenomen. Un altro tipo di onomasia femminile ricorrente nelle epigrafi che permetteva di identificare la donna prevedeva la menzione del gamonimico, ossia del nomen della gens del marito.

Le epigrafi rinvenute a Preneste dimostrano che il nomen è determinante nel sistema onomastico femminile, così come in quello maschile, ma mentre gli uomini prima e dopo il nome della gens aggiungevano due nomi propri caratteristici che servivano a distinguerli dagli altri cives, le donne invece, qualora si presentasse la necessità, potevano aggiungere al nome della gens un aggettivo, il patronimico o il gamonimico.

Dall’esame delle fonti si evince, quindi, che i tipi più ricorrenti di onomastica femminile sono i seguenti: il nome unico, ossia il nomen paterno declinato al femminile (Sempronia); il nomen seguito dal patronimico (Sulpicia Servi filia); il nomen accompagnato dai cognomina maior, minor, o maxuma, collocati al posto del praenomen (Maior Fabricia); il nomen seguito dal gamonimico, (Maria Claudia).

Alle donne, quindi, non veniva data la possibilità di accompagnare il nomen con un altro nome proprio, così come avveniva per gli uomini, che per distinguersi all’interno della stessa famiglia avevano un cognomen o, addirittura, un agnomen. L’uso dell’aggettivo al posto del nome proprio nell’onomastica femminile latina dimostra che i romani non ritenevano necessario designare la donna con un nome individuale caratteristico che la potesse distinguere in modo univoco, ma preferivano invece identificarla attraverso un attributo, che tra l’altro non indicava una qualità della donna ma l’ordine di nascita all’interno della famiglia. A tal proposito Paolo Marpicati (2007: 246) definisce l’onomastica femminile “unomastica”, infatti sostiene che il nome femminile non è un vero ὄνομα, ma si può piuttosto considerare come un oὔnoma, ossia un “non nome”.

4. La mulier aveva un praenomen?

Il sistema onomastico femminile latino era prevalentemente uninominale e della formula tradizionale dei tria nomina le donne romane riportavano soprattutto il nomen, a cui potevano aggiungere il patronimico, il gamonimico o un aggettivo che aveva valore di cognomen ma occupava il posto del praenomen.

Tuttavia, sebbene le opinioni degli studiosi sull’esistenza e l’uso del praenomen femminile siano molto discordanti tra di loro, diverse testimonianze dimostrano che durante l’età arcaica le donne, così come gli uomini, avevano un praenomen.

Sia le iscrizioni funerarie che le fonti letterarie, infatti, ci documentano l’esistenza di praenomina femminili, molti dei quali derivati dai corrispettivi maschili. Gaia, Lucia, Quinta, Publia sono i prenomi femminili più ricorrenti nelle iscrizioni, Marca, rispetto a Marcus non è molto frequente forse perché la sua etimologia si ricollega a Marte, il dio della guerra (Kajanto 1972: 25-26).

Varrone cita i prenomi femminili Mania, Postuma, Lucia (Varrone: IX,61) mentre Festo tra i praenomina ricorda Caecilia, Titia e Taracia (Festo: 251.6). Giulio Paride ci spiega che alcuni prenomi femminili (Paride: 7) derivavano dal colore della pelle o dei capelli della donna (Rutilia, Caesellia, Rodacilla, Murrula, Burra), altri da prenomi maschili (Gaia, Lucia, Publia, Numeria). Lo stesso Giulio Paride sostiene che secondo Q.M. Scevola gli uomini ricevevano il praenomen nel momento in cui indossavano la toga virile, mentre alle donne veniva imposto appena si sposavano. Altre fonti letterarie, invece, dimostrano che il prenome veniva assunto al momento della purificazione, ossia dopo otto giorni dalla nascita per le donne e dopo nove giorni per gli uomini (Cantarella 2015a: 188).

Kajanto (1972: 14), analizzando i nomi femminili che ricorrono nell’epistolae di Cicerone, sottolinea che l’oratore anche quando si riferisce alla figlia Tullia usa solo il nomen o, nei “momenti più intimi”, il diminutivo Tulliola, ma non ricorre mai all’uso del praenomen. Nelle lettere di Cicerone è attestato l’uso di Tertia in funzione di praenomen, ma, come abbiamo spiegato, tertia è un aggettivo numerale, usato con valore di cognomen per distinguere le sorelle all’interno della stessa famiglia. Pertanto è evidente che in Cicerone, uno degli autori più rappresentativi dell’età tardo repubblicana, l’uso del praenomen femminile non è documentato.

Dall’esame delle iscrizioni Kajanto aveva notato, però, che in età arcaica i prenomi femminili erano attestati e che i più ricorrenti derivavano da quelli maschili, pertanto lo studioso sostiene che il sistema onomastico romano in un primo momento prevedeva anche l’uso di praenomina femminili, come documentano le fonti, ma per ragioni non specificate questi prenomi sono scomparsi in un periodo anteriore alla “historical age of the Romans” (1972:13-30).

Giuliano Bonfante (1980: 3-10)confuta la tesi di Kajanto e sostiene, invece, che le donne romane non hanno mai avuto un nome e rifacendosi allo Schulze (1966: 49) afferma che la motivazione si deve far risalire ad una regola giuridica, infatti l’assenza di un nome per una donna romana significava “mancanza di capacità giuridica” e questo rispecchiava il diritto romano che considerava come esseri inferiori le donne e gli schiavi che erano soggetti alla potestà del paterfamilias, una potestà che ha “la sua suprema espressione nel famigerato ius vitae et necis” (Bonfante 1963: 55).

Secondo un’altra ipotesi (Salway 1994: 124-125), invece, i prenomi femminili sarebbero scomparsi a seguito di una naturale evoluzione del sistema onomastico romano e non per motivi legati alla differenza di genere. Salway sostiene che i prenomi romani erano troppo pochi, infatti riporta un elenco di soli diciassette praenomina maschili, e pertanto non riuscivano a garantire l’identificazione dei singoli individui con un unico nome. Dato il numero esiguo di prenomi si avvertì, quindi, la necessità di identificare una persona con un secondo nome e così, pian piano, i prenomi cominciarono ad essere abbreviati con la sola lettera iniziale puntata, come testimoniano le iscrizioni. Secondo questa ipotesi le donne, quando l’uso del praenomen cominciò a diminuire, al di fuori del contesto familiare venivano riconosciute solo con il nomen gentilizio paterno al quale, qualora fosse necessario fare distinzioni, si poteva aggiungere un aggettivo, il patronimico o il gamonimico.

Peruzzi (1970: 67-74) sostiene che il praenomen femminile sia sempre esistito ma i romani, rispettosi di alcuni tabù onomastici, preferivano non pronunciarlo, soprattutto in pubblico, e quando avevano la necessità di identificare la donna in modo preciso utilizzavano aggettivi numerali con valore di cognomina. L’uso privato del praenomen femminile, induce a credere che i romani consideravano il nome proprio come un elemento caratteristico dell’individuo, simile ad una parte del corpo e quindi non era consentito pronunciarlo al di fuori del contesto familiare. Questa concezione di considerare il nome femminile come una parte della persona si crede che i romani l’abbiano ricavata da una cultura straniera dopo la fondazione della città e si pensa sia stata introdotta a Roma dai sabini insieme al sistema binominale.

Le donne indicate con il praenomen venivano considerate di facili costumi e poco apprezzate nella società romana, infatti le fonti letterarie testimoniano che alcuni prenomi femminili erano tratti dai colori, Rutilia ad esempio, deriva dal rosso in riferimento al colore dei capelli che a Roma era un colore caratteristico delle prostitute. Quindi, di solito, le donne romane che portavano i prenomi svolgevano delle professioni che le conferivano una scarsa dignità e rispettabilità sociale (Cantarella 2015b: 50-52).

L’ipotesi dei tabù onomastici viene confermata anche dalla denominazione di un’antica divinità femminile onorata a Roma che, genericamente, veniva chiamata bona dea per non pronunciare il suo vero nome che agli uomini non era dato conoscere; infatti i romani tenevano segreto sia il nome dell’urbs che quello della sua divinità tutelare.

Dall’esame delle fonti si evince quindi che le donne potevano essere indicate anche con un prenome e cioè che anche le mulieres romane avevano un nome proprio ma solo pochissime donne, però, venivano identificate in questo modo mentre la maggior parte di esse veniva appellata con un nome unico che era il nome della gens paterna femminilizzato.

5. Gli pseudonimi poetici.

Il primo libro di Properzio si apre nel nome di Cynthia,un “senhal” che costituisce l’incipit della prima elegia del poeta, un referente dominante e tematico della poesia properziana, non a caso collocato in apertura del carme programmatico, del primo libro e dell’intera raccolta poetica. Cinzia non è il vero nome della donna amata dal poeta elegiaco (secondo le fonti la donna si chiamava Hostia) ma uno pseudonimo poetico, Properzio infatti, seguendo una caratteristica comune a tutti i poeti elegiaci, nasconde il nome della donna amata sotto uno pseudonimo che risulta essere metricamente equipollente (Cynthia-Hostia). Cinzia, il nome usato dal poeta elegiaco per indicare la donna amata va collegato a Cynthus, nome di un monte dell’isola di Delo, sacro ad Apollo, dio della poesia, di cui “Cinzio” è epiteto.

Un celebre passo di Apuleio ci svela la chiave di lettura del presunto autentico nome delle donne cantate da famosi poeti latini, nome che veniva celato appunto dietro un sinonimo onomastico metricamente equipollente: “Catullo menzionò Lesbia invece di Clodia, Ticida similmente chiamò per iscritto Perilla colei che in realtà era Metella, Properzio parlando di Cinzia dissimulò Hostia e Tibullo ebbe nei versi Delia, nel cuore Plania” (Apuleio: 10).

Lesbia, protagonista indiscussa della poesia catulliana, è lo pseudonimo poetico di Clodia, moglie di Q. Cecilio Metello e sorella del tribuno Clodio accusato da Cicerone (Cicerone Pro Caelio). Lo pseudonimo usato da Catullo per la donna amata rievoca Saffo, la poetessa di Lesbo, e consente al poeta di creare attorno a questa figura femminile un “alone idealizzante” che le conferirà una grazia e una bellezza non comune (Conte; Pianezzola 1993: 15). Anche il nome di Lesbia prosodicamente equivale a Clodia, così come la coppia Cynthia-Hostia.

Cynthia e Lesbia non sono quindi i veri nomi delle donne amate e celebrate nelle opere di Properzio e Catullo, ma due pseudonimi usati dai poeti per velare il nomen delle donne cantate nei loro versi. L’uso di pseudonimi poetici è un altro dato importante per ricostruire l’onomastica femminile latina e serve a dimostrare la tesi secondo la quale i romani preferivano che il nome della donna rimanesse segreto e non venisse pronunciato in pubblico.

6. Conclusioni

Dall’esame delle fonti epigrafiche e letterarie si evince quindi che nella cultura romana la donna non aveva un ruolo sociale riconosciuto, questo si riflette anche nel sistema onomastico che esprimeva la condizione giuridica e sociale dell’individuo. Il sistema onomastico tradizionale romano dei tria nomina si riferiva solo ai cittadini liberi di sesso maschile, le donne, i liberti, gli schiavi e gli stranieri non venivano chiamati secondo la sequenza caratteristica di questa formula. Alla mulier romana veniva dato il nomen della gens paterna declinato al femminile, quindi tutte le donne della gens Flavia portavano il nome Flavia, tutte quelle della gens Giulia si chiamavano Giulia e così via. Giulia, Flavia, Cornelia, sebbene nomi propri, svolgevano a Roma la funzione dei nomi comuni, infatti il nome Giulia si riferiva ad una delle tante “Giulie” della famiglia e non indicava in maniera chiara e definita uno specifico individuo rispetto ad altri membri del gruppo, pertanto non svolgeva la funzione caratteristica di un nome proprio, ma in maniera generica indicava una donna della gens. Se i romani volevano essere più precisi per individuare una donna ricorrevano ad aggettivi numerali che indicavano l’ordine di nascita all’interno della famiglia oppure aggiungevano al nome gentilizio il patronimico o il gamonimico.

Le iscrizioni prenestine, una delle fonti più ricche e preziose per ricostruire l’onomastica femminile latina, riportano alcuni casi di donne indicate con il praenomen, fenomeno che viene documentato anche da alcune fonti letterarie. Non possiamo quindi negare che le donne romane avessero un nome proprio, ma allo stesso modo non abbiamo testimonianze per attestare che questo nome fosse usato dalle donne fuori dal contesto familiare o pronunciato in pubblico. La donna romana non avendo un nome individuale caratteristico ci appare come una mulier sine nomine infatti veniva identificata in pubblico attraverso aggettivi numerali o specificando il nome del padre o del marito.

Risulta quasi impossibile fare un parallelo tra le matrone romane del I sec. a.C. e le donne occidentali del XXI secolo, il cammino verso l’emancipazione femminile, seppur lungo e tortuoso, ha dato molto frutti ed appare inarrestabile.

La donna oggi è indipendente, colta, riveste ruoli politici e sociali che un tempo erano riservati solo agli uomini, ha un nome individuale che la contraddistingue, ma non dimentichiamo che Hillary Rodham, una delle donne più influenti d’America, si candida per le elezioni presidenziali del 2016 con il gamonimico Clinton. Il cammino verso l’emancipazione nella società occidentale odierna, almeno nel campo dell’onomastica femminile, non sempre procede verso realtà più progredite.

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