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BLOQUE 2. Pensadoras y filósofas

Etica della persona e illusione del personaggio: un’idea analizzata attraverso la filosofia di María Zambrano, Simone Weil e Hannah Arendt

Adele Ricciotti

Università di Bologna

Abstract: Come parlare di un’etica della persona? E come definire la “persona”? Attraverso i pensieri di María Zambrano, Simone Weil e Hannah Arendt, si proporrà un’idea di persona che intende corrispondere ad un alto livello etico e conoscitivo dell’uomo e contrapporsi alla negatività attribuita al “personaggio”, incarnazione dell’inganno del sé. Partendo dall’analisi dei concetti di “idolatria” e di “storia sacrificale” della filosofia di Zambrano e confrontandoli con quello di “forza” meditato da Weil e con quelli di “autopresentazione” e “autocelebrazione” propri di Arendt, tenteremo di riconoscere il filo conduttore che accomuna le autrici nella loro riflessione sulla “illusione” dell’essere e la “verità” dell’individuo.

Parole chiave: Persona; Etica; Personaggio; Autodivinizzazione; Storia sacrificale.

Negli ultimi anni, la ricerca filosofica ha proposto nuove idee e nuovi strumenti per riesaminare il pensiero etico, offrendo approcci che s’inseriscono più direttamente nella società contemporanea rispetto a quanto ha fatto la tradizione passata. Il tema di un metodo filosofico che coincida con i problemi sociali ed esistenziali moderni è, tuttora, quanto mai discusso. E il dibattito sul senso e l’utilità della filosofia nella contemporaneità è ancora aperto. Oggi, attraverso un confronto tra tre grandissime pensatrici, tenteremo di contribuire a questo dibattito concentrandoci sul significato di “persona”, termine affatto scontato e ricco di significati etici. La nostra indagine si soffermerà solo sulle teorie delle filosofe prese in esame evitando, naturalmente, di ripercorrere la lunghissima tradizione filosofica che, nel tempo, ha di volta in volta ridefinito l’essere e l’essere-persona.

Durante il mio lungo studio sul pensiero di María Zambrano (1904-1991) ho sviluppato la convinzione che la sua nozione di persona sia, se ricondotta alla nostra contemporaneità, assai utile per affrontare un problema comune, che sta divenendo sempre più urgente per via dell’intensificarsi delle condizioni che allontanano ogni giorno di più, a parer nostro, il soggetto dalla propria verità ontologica. Per questo motivo, partirò proprio dall’analisi dell’interpretazione zambraniana della persona, concetto che sorregge tutto il suo pensiero. Da qui, sarà interessante sostenere un confronto con quanto Simone Weil (1909-1943) ed Hannah Arendt (1906-1975) hanno in comune con tale idea, seguendo un percorso che vorrebbe condurre non tanto a una soluzione, che rappresenterebbe una pretesa alquanto presuntuosa, ma piuttosto a un suggerimento in relazione a ciò che viviamo oggi, nell’epoca del massimo splendore del capitalismo e del dominio di internet, che sta trasformando l’uomo in una “immagine” di se stesso.

L’idea di persona che emerge dalla filosofia di María Zambrano si edifica sull’intero percorso della sua vicenda autobiografica, dal momento che si tratta, il suo, di un pensiero che mai si scinde dall’esperienza personale. Ciò che Zambrano ha da sempre riflettuto, a partire dalla constatazione delle vicende politiche che si susseguivano intorno a lei (dalla guerra civile spagnola, alla dittatura, alla seconda guerra mondiale, al lungo esilio) è che, filosoficamente, il problema dell’uomo risiede nella sua “mancanza d’essere” e, di conseguenza, nel mancato riconoscimento, e dunque accettazione, di se stesso.

Il fatto che Zambrano individui le cause di ciò che accade nella storia nel seno di un’autentica riflessione filosofica indica proprio ciò che, a parer nostro, la filosofia dovrebbe sempre fare: andare alla ricerca della radice profonda che fonda la condizione esistenziale umana per poter comprendere, davvero, i fatti e le azioni che l’uomo, con la sua storia, produce.

Come Zambrano racconta nella sua celebre opera L’uomo e il divino, con un tono più narrativo che esplicativo e assai originale per un testo filosofico, la filosofia occidentale, cominciata di fatto con Parmenide (L’essere è; Il non-essere non è), rinnegando l’oscurità e molteplicità della realtà invece accolta dal pensiero precedente, fonda il principio dell’“unità dell’essere” che colmerà anche la mancanza d’essere attribuita all’uomo. Attraverso il potente strumento dell’identità, la filosofia proseguirà la sua storia interpretando e mascherando la realtà (come sarà poi ribadito da Heidegger, che molto ha in comune con María Zambrano), intrappolando dunque la sua eterogeneità (difesa anche dal filosofo Juan de Mairena1 – apocrifo del poeta Machado, amico di Zambrano) e annullando l’insito elemento oscuro che la origina con l’abbagliante luce del concetto.

Ciò che Zambrano nomina sacro (el sagrado) altro non è che la nostra radice vincolata indissolubilmente alla trascendenza, a ciò che si situa in un “altrove” che rimane sconosciuto alla ragione – logos intesa quale pensiero razionalistico (e di nuovo troviamo un punto in comune con Heidegger). La filosofia tradizionale, quindi il pensiero occidentale, ha tentato di rimediare a questo “impossibile” da possedere con l’illusione dell’unità, o annullandolo, dimenticandosene quasi, rifiutando di farci i conti. Saranno altre correnti, invece, ad accoglierlo quale fondamentale elemento che testimonia la nostra origine e l’impossibilità di essere: dalle filosofie indiane, al sufismo, alle mistiche, dimensioni che Zambrano studierà e farà proprie imprimendone i concetti chiave nei simboli che utilizzerà nelle sue ultime opere2.

Zambrano definisce l’uomo, dunque, un “mendicante dell’essere”, mendigo del ser (Zambrano 2001a): non potendo possedere una unità d’essere egli la sostituisce con illusorie soluzioni. Nasce così quello che potremmo chiamare “il mito dell’identità umana”. Ma ciò che Zambrano intende denunciare non è tanto il bisogno, naturale e istintivo, che ha l’uomo di possedersi, di cercare un’identità che sempre gli è negata nella sua interezza; ma, piuttosto, ella critica la superbia e l’esagerazione con cui egli ha portato avanti questa tendenza, cercando di “farsi da sé”, ovvero intraprendendo ciò che Zambrano ha nominato “la storia del delirio di deificazione”: l’uomo occidentale ha coltivato la propria autocreazione, sostituendo di fatto l’azione divina, autodivinizzandosi.

L’uomo ha così evitato di accettare la propria nascita incompleta, la propria condizione di creatura, volendo invece essere creatore di se stesso. Da quest’attitudine, di origine filosofica ma riscontrabile nel carattere propriamente umano, la storia – considerata concreta manifestazione del pensiero – si è fatta via via sempre più segnata dal mito della potenza e della dominazione, divenendo allora, come spiega Zambrano, una storia sacrificale. Se l’uomo si crede un dio, allora la storia non potrà che essere popolata da idoli e vittime. La conseguenza paradossale di una filosofia che, culminando con Hegel, pone l’uomo all’interno di un perfetto meccanismo d’identità e unità, è la storia vissuta dai personaggi3.

Come non ammettere che una storia come quella occidentale è stata una storia sacrificale? Basterà uscire per un momento dalla narrazione filosofica, per accorgersi immediatamente degli effetti della propensione analizzata dalla pensatrice spagnola. Difatti, non possiamo che riconoscere il personaggio-idolo nelle figure dittatoriali di Franco, Mussolini, Hitler; e il personaggio-vittima nei sacrificati spagnoli, negli esiliati, ma anche in coloro che crederono, per esempio, alla bandiera comunista, che s’immolarono per ideologie poi risultate ipocrite illusioni, che non compresero la gravità di certi meccanismi politico-sociali che stavano inglobando il mondo intero.

La basilare dialettica idolo-vittima che muove la storia moderna e contemporanea, e descritta negli importanti testi di Zambrano, Agonia dell’Europa, scritto nel 1945 (Zambrano 1999) e Persona e democrazia, del 1958 (Zambrano 2000a), ci conduce proprio al significato attribuito alla persona.

Ma è in Delirio e destino, dove Zambrano scrive che l’uomo deve imparare ad accettare la fatica del rinascere ogni giorno, “a partire dalla verità”, accogliendo il sacro come elemento insito e sconosciuto nell’uomo.

E ogni volta che si nasce o si rinasce, perfino nel rinascere ogni giorno, occorre accettare la ferita nell’essere, la scissione tra chi guarda e può identificarsi con il guardato - e in tal modo lo desidera - e l’altro, quello che sente nell’oscurità e silenziosamente, nella notte del senso dove nessun senso porta alcun messaggio. E occorre imparare a sopportarlo (Zambrano 2000b:19).

Una “fatica”, dunque, è quella del riconoscimento. È questo il nodo che la nostra riflessione cerca di sciogliere per comprendere chi si è quando si è, per davvero, persona. Seguendo la riflessione di Zambrano, in particolar modo riferendoci al suo testo Persona e democrazia, e riconsiderandolo alla luce dell’intera opera dell’autrice, precedente e successiva al suddetto testo, comprendiamo che l’essere persona ha un lampante significato etico. Ovvero, esso si riferisce sì, prima di tutto, a un livello conoscitivo (o riconoscitivo) ma questo conferma allo stesso tempo un più alto livello etico. Persona è chi si riconosce nella propria mancanza d’essere e si accetta. Chi si accetta come creatura, accettando la sfida della penosa “rinascita quotidiana”, chi abbandona l’illusione dell’essere-già per accogliere il patire della trascendenza e l’esistenza del dato sconosciuto, senza interporre ad esso ideologie dittatoriali né sacrificali.

Il termine persona si riferisce allora a una dimensione etica difficile da raggiungere, ma non per questo impossibile. La Ragione Poetica che María Zambrano insegna ­­–poetica perché è proprio del poeta l’accettazione della trascendenza e della condizione di creatura, come scrive in Filosofia e Poesia (Zambrano 1998)–, è quindi una filosofia didattica che invita l’uomo ad abbandonare la maschera del personaggio per rimanere nudo nella propria verità di persona. Naturalmente, è questo, un percorso personale, che ogni uomo dovrebbe poter / voler affrontare nel proprio intimo, eppure, se la storia gettasse tutte le sue maschere forse si avrebbe anche una conversione della storia da tragica (da lei nominata anche apocrifa) ad etica, ovvero l’avvento di un’autentica democrazia.

Considerando dunque questo altissimo valore etico attribuito alla persona, che Zambrano definisce “la parte più vivente della vita umana, il nucleo vivente capace di attraversare la morte biologica” (Zambrano 2000a: 148), in netta contrapposizione con l’idea di personaggio che – raffigurato dalla maschera – racchiude la più grave debolezza umana, condensata nella speranza di essere ciò che non si è, vorrei proporre un confronto tra questa interpretazione di Zambrano e il pensiero di Simone Weil, totalmente dedicato alla rivelazione della verità del sé e del reale.

Spesso i nomi delle due autrici sono stati accostati, e indubbiamente esiste in loro una comune attenzione al problema dell’eticità della persona che pochi altri hanno difeso con la medesima fedeltà e sincera preoccupazione.

Nella filosofia di Simone Weil il tema morale è perennemente presente: la sua incessante ricerca della verità, attraverso la pratica estrema dell’attenzione – altro concetto essenziale del suo pensiero – si accompagna all’importante contrapposizione che lei sottolinea tra forza e impersonale.

L’impersonale della Weil potrebbe a un primo approccio risultare un termine contrario a quello persona, ma indagando la sua filosofia esso ne risulta invece l’essenziale sostegno. Infatti l’impersonale indica un abbandono della pretesa dell’Io, del solipsismo del soggetto, quindi proprio di ciò che Zambrano nomina “delirio di divinizzazione”. Anche Simone Weil critica questa dittatoriale pretesa della ragione: lo stato dell’impersonale è quindi l’abolizione dell’illusione che il soggetto produce, e l’avvicinamento a ciò che Zambrano nomina, appunto, “persona”.

Noi siamo nell’irrealtà, nel sogno. Rinunciare alla nostra immaginaria collocazione al centro, rinunciarvi non solo con l’intelligenza ma anche nella parte immaginativa dell’anima, significa destarsi al reale, all’eterno, vedere la vera luce, udire il vero silenzio. Si produce allora una trasformazione, alla radice stessa della sensibilità, nella maniera immediata di recepire le impressioni sensibili e quelle psicologiche. […] Svuotarsi della propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare a essere con l’immaginazione il centro del mondo […] (Weil 2008: 119).

Se in Zambrano l’atteggiamento idolatrico sviluppa la storia sacrificale, in Simone Weil esso legittima il dispiegamento della forza; anzi, esso è il fondamento stesso della forza.

Torna a presentarsi, così, la medesima dialettica idolo-vittima che domina la storia contemporanea secondo Zambrano, la storia dei totalitarismi, che le due filosofe criticano ricercandone la radice nella condizione del pensiero umano.

La Forza è ciò che fa sì che gli esseri umani infliggano il male ai loro simili per necessità personale ed egoistica. Quindi ciò che li conduce a considerare altri esseri umani non “uomini” ma “oggetti” da utilizzare, da possedere, da piegare. Ed anche la Weil riconosce la stessa causa di fondo di Zambrano, esponendo la sua teoria dell’immaginazione, quale motore che muove la storia, che alimenta le folle, le masse, e il totalitarismo.

È l’immaginazione ad alimentare la forza in nome della quale si combattono le guerre: secondo Simone Weil essa fa sì che si lotti senza nemmeno sapere qual’è l’obiettivo: nazione, sicurezza, capitalismo, comunismo, fascismo, ordine, autorità, proprietà, democrazia, si dichiara guerra in nome di una di queste nozioni, ma sono solo bandiere svuotate di significato. “Chi le usa lo fa in modo irreale”.

Scrive in La Grecia e le intuizioni precristiane:

La guerra è fatta di prestigio... Ed è un’ombra. Una menzogna” (Weil 1984: 188). E ancora, nei suoi Quaderni: “In realtà l’uomo si limita a subire la forza e non la maneggia mai, qualunque sia la situazione. L’esercizio della forza è un’illusione. Nessuno la possiede (Weil 2006: 198).

Il prestigio criticato da Weil è esattamente ciò che crea il personaggio zambraniano: il delirio di autodivinizzazione. Così anche la storia che da tale illusione scaturisce è inevitabilmente una storia violenta. L’uomo che vuole farsi da sé, senza riconoscere il legame trascendente che lo vincola alla sua origine, senza voler riconoscere di essere creatura e non creatore; è l’uomo che vuole essere Dio.

In Venezia salva la Weil spiega che la guerra è causata dall’uomo che sogna se stesso e che “il vincitore vive il proprio sogno” (Weil 1994: 53). Queste potrebbero davvero sembrare parole di Zambrano. E infatti come spiega Weil, l’illusione, il sogno di sé, l’immaginazione travalica il concetto di limite: l’uomo vuole essere illimitato. Ciò genera la violenza sugli altri, considerati ostacoli al proprio desiderio senza limite4.

Vediamo dunque che le due pensatrici si muovono su un medesimo piano, consapevoli della dominazione, nell’uomo, di un’illusione o immaginazione che produce una storia tragica in cui la verità umana viene schiacciata dalla prepotenza di un falso idolo (o forza). E così pure la loro nozione di vittima possiede un comune denominatore: la sventura descritta da Weil, ovvero la costrizione a piegarsi alla forza, è anche uno sradicamento5; proprio ciò che per Zambrano risulta essere la vittima: dimenticata dalla storia, alla quale non si danno ragioni, ella appare una sorta di sradicato, di esiliato, come lo sono state tutte le vittime spagnole della guerra civile, lasciate senza radici, senza voce, senza una storia autentica, poiché ciò che si ricorda è solo la storia dei vincitori.

E allo stesso modo, le due autrici oppongono a questa tragica tendenza il bisogno, assolutamente necessario, di ribaltare tale dialettica attraverso l’accettazione, il riconoscimento della verità. Secondo Weil la verità è ottenibile solo tramite la pratica dell’attenzione, essendo, quest’ultima, il cammino che tenta di giungere alla pura verità delle cose. Zambrano, da parte sua, riconosce nella memoria il metodo per sviscerare gli errori della storia e riportare la verità delle vittime a galla. Ma attenzione e memoria contengono, da questo punto di vista, un identico scopo.

Sarà interessante, a questo punto, citare un passo da Delirio e destino di María Zambrano, a mio parere il più fondamentale del libro, quello in cui si focalizzano tutti i significati che in esso Zambrano ha voluto esprimere, e l’unico in cui viene utilizzata, invece che la terza persona presente nell’intero testo per sancire il racconto di una storia non personale ma collettiva, la prima persona, perché qui è Lei stessa a ricordare e a prestare la sua voce:

È retorico, ma non voglio piangervi oltre, vi chiamo soltanto, perché così mi chiamo a me stessa, per sentire la vostra voce mescolata alla mia e potervi rispondere che sono ancora qui, affinché mi possiate chiamare da quel silenzio in cui siete caduti […]. La vita si è scissa; i sopravvissuti hanno le radici nude; voi, i morti, siete le radici; solo radici affondate nella terra e nell’oblio. […]

I morti non hanno voce; è ciò che perdono per prima. Li udiamo dentro noi stessi […]. Arrivano parole spezzate, sillabe, da quel paese della morte. Una voce, strozzata nello sforzo di parlare, vuole raccontare la sua storia. Tutti i morti prematuramente, quelli di morte violenta, hanno bisogno che si racconti la loro storia, poiché deve essere possibile sprofondare nel silenzio solo quando tutto sarà detto, e la vita ormai appurata come un’unica frase limpida nel senso. L’anima si può arrendere solo davanti a una vita che nella sua ragione fluente raccoglie le nostre ragioni, quelle di ciò che viviamo, di ciò che ci è toccato vivere (Zambrano 2000b: 217-218, sottolineatura mia).

È importante soffermasi sul particolare significato che in Zambrano la memoria acquisisce. Di nuovo in riferimento all’importante testo Delirio e destino, possiamo in esso incontrare la metafora con cui Zambrano identifica l’attività di un pensiero - memoria che sia efficace: il pensiero raffigurato come acqua che scorre, che scivola, che non si chiude nella rigidità del sistema, che non si fissa, ma che si muove attraverso un percorso di andi-rivieni (ir y venir) tra passato e futuro, portando a galla ciò che si è lasciato nel fondo, i sedimenti di una storia che non è stata raccontata del tutto:

Perché ci sia storia, anche nella vita di ciascuno, nella vita individuale, è necessario un doppio movimento. La coscienza che respinge verso il passato ciò che ci succede deve tornare a prenderlo, a riscattarlo, a... redimerlo. La storia è una specie di assunzione, alla luce del presente, di ciò che è stato condannato al passato - e tutto quello che succede [pasa] lo è. [...]

È giusto che debba faticare [la coscienza] […] per riscattare il passato, portarlo al presente, sottoporlo alla propria inesorabile chiarezza, portare, al piano dell’attualità, l’esame della coscienza che il passato non può fare laggiù, nel suo inferno, ignorante com’è delle conseguenze che le sue colpe hanno avuto per noi. Portare alla luce le immagini e guardarle, guardarle fino a che la loro essenza si mostri chiaramente, e la loro presenza si trasformi in un’essenza di cui ci si fa partecipi (Zambrano 2000b: 172-175).

Come la Ragione Poetica zambraniana insegna a fare a livello personale, l’azione di discendere, non solo simbolicamente, verso il basso, verso le zone d’ombra, le viscere, per comprendere l’essenza di ciò che si è, la dipendenza dall’elemento sacro, indefinibile, trascendente, per poi risalire conducendo il proprio sentire verso la chiarezza della riflessione, viene attualizzata da un pensiero fluido, da una memoria elastica e scorrevole, come un’acqua purificatrice che ricompensi ciò che non si è detto e che decifri, sviscerandoli, gli errori della storia apocrifa. Ed è esattamente questo il significato della “rinascita quotidiana” su cui Zambrano tanto insiste.

L’intero testo di Delirio e destino, raccontando la storia di Spagna, è disseminato da questa meravigliosa immagine metaforica della fluidità, che riesce a far comprendere perfettamente ciò che per Zambrano è il compito della filosofia: “discendere gli inferi della storia per riscattare i giusti, per far loro vivere una vita adeguata. Perché tutti i morti erano stati dimenticati per un lungo periodo e i falsi tradizionalisti pronunciavano la loro storia invano. Sentiva che la storia doveva farsi liquida, vivente” (Zambrano 2000b: 158).

L’immagine dell’acqua rimanda anche all’azione disincrostante del pensiero, alla purezza di ciò che viene lavato, depurato delle sue colpe. La metafora si allarga alla respirazione, all’ossigeno, al sangue che circola, al “pensiero che è vita” (Zambrano 2000b: 51).

Acqua che scorre, e battito, è il sangue. Un sangue nuovo, purificato dall’aria libera, e che liberasse finalmente il popolo spagnolo dalle sue ossessioni, […] un sangue che conducesse il cuore e la mente alla realtà. […] Il pensiero, per quel che si è visto, tende a farsi sangue. Per questo pensare è cosa tanto grave; o forse è il sangue che deve rispondere del pensiero. Per lungo tempo e varie generazioni, il pensiero prosegue silenzioso il suo cammino. Ma, quando un pensiero si formula in modo cristallino, incontra subito il sangue che deve rispondere della sua trasparenza, […] essere il veicolo dell’alimento principale, l’ossigeno, che gli giunge attraverso la respirazione, funzione primaria della vita, di ogni vita (Zambrano 2000b: 49).

Ma il sangue è anche quello delle vittime, versato nella storia apocrifa; sangue che il pensiero-acqua deve lavare, anzi no, piuttosto mescolarsi ad esso riportandolo alla fluidità, in modo che torni a scorrere nel presente, nel vivo della memoria, senza più giacere, secco e imputridito, negli inferni della storia. È, questa, un’immagine che ritroviamo in un altro testo di Zambrano, La tomba di Antigone, in cui la sua Antigone, rivista e corretta rispetto a quella di Sofocle, lava il sangue del fratello ucciso non con la sabbia, ma con l’acqua, risultando quindi anch’ella simbolo di quel riscatto filosofico che la storia richiede. Per questo non muore l’Antigone zambraniana, nella sua tomba; ella rimane tra il mondo dei vivi e quello dei morti per riscattare le colpe storiche del padre, per sviscerare il senso e riportarlo, ora limpido, alla chiarezza della coscienza:

La mia storia, lei sì che è sanguinosa. Tutta, tutta la storia è fatta col sangue, tutta la storia è di sangue, e le lacrime non si vedono. Il pianto è come l’acqua, lava e non lascia tracce. [...] Il tempo può esaurirsi, e il sangue non scorrere più, se però sangue c’è stato ed è scorso la storia continua a trattenere il tempo, ad aggrovigliarlo, a condannarlo. Per questo non muoio, non posso morire, finché non mi si dia la ragione di questo sangue e la storia non esca di scena, lasciando vivere la vita. Solo vivendo si può morire (Zambrano 2001b: 79).

Tornando ora al confronto con Simone Weil, appare dunque semplice seguire il filo rosso che unisce le visioni filosofiche delle nostre autrici: solo una coscienza resasi autentica, in Zambrano attraverso il riscatto della storia prodotto dalla memoria, e in Weil grazie alla pratica dell’attenzione, riuscirebbe a fondare ciò che possiamo definire, per davvero, democrazia. La persona è l’uomo depurato dalle false ideologie, dal mito di se stesso, nudo di fronte alla propria verità dell’essere, e abitante, dunque, di una storia non più fasulla; la persona è l’abitante dell’effettiva democrazia.

Un altro concetto chiave con cui interpretare la filosofia esistenziale di Simone Weil è quello rappresentato dal vuoto. Di fatto, secondo la filosofa francese, la verità è sempre presente nell’assenza. Da una prospettiva estremamente religiosa, la Weil identifica la decisione del far vuoto dentro di sé – su modello dei mistici – con l’imitazione di Dio; ma, sia ben chiaro, non si tratta, questa, di un’imitazione in termini di idolatria, bensì, ancora una volta, dell’esatto contrario. Nella teodicea interpretata da Simone Weil, la creazione divina coincide con l’abdicazione di Dio: ritirandosi, Dio ha sospeso la sua infinita potenza per permettere l’esistenza umana; attraverso l’auto-annullamento di Dio, l’uomo ha potuto essere: “La Creazione è da parte di Dio non un atto di espansione di sé, ma un ritirarsi, un atto di rinuncia. Dio insieme a tutte le creature è meno di Dio da solo. Egli ha accettato questa diminuzione. Ha svuotato di sé una parte dell’essere” (Weil 2008: 120).

Quindi, l’ideale di condotta umana è quello che partecipa alla verità soprannaturale, come la Weil nomina la verità più pura e trascendente, quello che segue l’imitazione dell’annullamento di Dio. Accettarsi come un nulla corrisponde all’accettazione della contraddizione, in cui risiede la verità soprannaturale, ciò che la ragione umana non può comprendere a livello razionale ma che può ricevere, come un dono, grazie ad un’azione di estrema umiltà. La medesima umiltà, questa, che contraddistingue la persona zambraniana, colui che accetta di essere creatura invece che creatore. Vediamo dunque come entrambe le filosofe ricerchino una verità situata al lato opposto dell’atto creazionistico; bensì nell’accettazione (che non è da confondere con la rassegnazione) di ciò che si è. L’impersonale di Simone Weil invita ad abbandonare l’egoismo del soggetto, l’idealizzazione della ragione, proprio come la Ragione Poetica di Zambrano insegna a gettare la maschera idolatrica.

Lasciando da parte le molte altre comparazioni che si potrebbero analizzare tra María Zambrano e Simone Weil, e che non sarebbe possibile sviluppare in questa sede, confermiamo dunque l’idea su cui si basa, sostanzialmente, il pensiero delle due: la più importante conquista umana è il riconoscimento di una verità assai difficile da affrontare. Ma attraverso questa accettazione, l’uomo raggiunge un livello etico che gli fa meritare il titolo di persona. Ciò che appare più evidente è la forza della speranza di questo miglioramento etico, in un’epoca della quale le due donne soffrono entrambe le drammatiche condizioni: la guerra, l’esilio, le tragiche sorti dell’Europa. Questa conversione, sia dell’uomo sia della storia, appare possibile solamente grazie a un abbandono: l’abbandono della volontà di possedere la realtà, della pretesa di essere creatori, dell’illusione e dell’immaginazione che sempre si convertono in idolatria.

Nei medesimi anni nei quali María Zambrano e Simone Weil riflettevano sulle sorti del mondo occidentale e sperando nella conversione della sua tragica storia, la filosofa tedesca Hannah Arendt approfondiva il suo geniale pensiero etico che troverà il proprio fulcro nell’analisi della nascita del totalitarismo.

Le tre filosofe si relazionano soprattutto per aver assunto con estrema convinzione e coerenza il proprio ruolo di intellettuali in lotta contro la tendenza occidentale che conduce all’idolatria. Non si può nemmeno dimenticare la loro sorte di esiliate e vittime del totalitarismo che ha caratterizzato la dittatura franchista, il nazismo e la seconda guerra mondiale: la Arendt fuggì dalla Germania, in quanto ebrea, rifugiandosi negli Stati Uniti nel 1933; María Zambrano fu espulsa dalla Spagna nel 1939, alla fine della guerra civile e con la vittoria di Franco, e cominciò il suo lungo esilio di oltre quarantacinque anni; Simone Weil, anch’ella ebrea, partecipò come combattente alla guerra civile spagnola, fuggì con la famiglia, nel 1942, negli Stati Uniti per poi tornare a Londra l’anno dopo con l’intenzione di non abbandonare le sorti delle vittime della guerra e lì morì di stenti.

Come Zambrano e Weil, anche Arendt si oppone fortemente alla predisposizione del pensiero occidentale che non ha voluto considerare l’autentica esistenza individuale dell’uomo. La sua critica alla filosofia tedesca, per esempio, si riferisce alla sbagliata interpretazione che questo tipo di pensiero ha condotto sull’Essere: da Kant e perfino fino al suo maestro Heidegger, l’uomo è stato considerato un astratto, dando la priorità alla ragione (logos) a discapito dell’individuo concreto:

Sebbene Heidegger non lo ammetta, questo è il motivo per cui nella sua filosofia il nulla diviene improvvisamente attivo e comincia a nullificare […]. Se l’essere, che io non ho creato, rientra nella sfera di un essere che io non sono e che io non conosco, allora il nulla è forse il dominio vero e libero dell’uomo. Siccome non posso essere un creatore di mondi, il mio ruolo potrebbe essere quello di distruttore di mondi. […] Queste sono, in ogni caso, le basi filosofiche del nichilismo moderno, le cui origini risalgono all’ontologia tradizionale. […] In altre parole, l’essere dell’uomo è determinato da ciò che l’uomo non è, cioè dalla sua nullità. […] Da questo isolamento assoluto emerge un concetto del sé come esatto contrario dell’uomo. […] Il sé, nella forma della coscienza, ha preso il posto dell’umanità e l’essere-un-sé ha preso il posto dell’essere umano” (Arendt 2001: 211-215).

È stata proprio l’abitudine a considerare l’uomo come un’entità astratta a generare il totalitarismo, nel quale si obbedisce a una legge superiore senza sapere che cosa effettivamente si stia facendo, senza conoscere il ruolo che la propria coscienza, personalità e libertà detengono, proprio come accade sotto il peso della forza descritta da Simone Weil.

Hannah Arendt vuole tornare alla dimensione privata dell’esistenza; e rifiutare l’autocelebrazione della ragione che ha dominato la storia della filosofia, che si è convertita in una forma di divinizzazione.

Nella sua famosa opera Vita activa (parte de La vita della mente, Arendt 2009), Arendt sottolinea la differenza tra autopresentazione e autocelebrazione. L’autopresentazione è una comune attività dell’uomo e dell’animale, per la quale si desidera, si necessita, relazionarsi con gli altri:

E allo stesso modo in cui l’attore dipende per il suo ingresso in scena sul palcoscenico, dalla compagnia e dagli spettatori, così ogni essere vivente dipende da un mondo che appare quale luogo per la propria apparizione, dai suoi simili per recitare la sua parte con loro, dagli spettatori perché la sua esistenza sia ammessa e riconosciuta (Weil 2009: 102).

Ricordando la filosofia aristotelica, la vita activa analizzata da Arendt si riferisce esattamente a questa fondamentale attività umana, l’autopresentazione, che nell’antichità conservava l’importanza della partecipazione all’attività politica della polis, luogo nel quale i cittadini potevano presentarsi agli altri dimostrando il proprio valore e, soprattutto, la propria purezza etica. Naturalmente, nell’epoca contemporanea, questa assoluta priorità della comunicazione e della relazione con gli altri si è completamente trasformata, convertendosi in una autocelebrazione collettiva, come lo dimostra assai bene la nostra politica e vita sociale.

Ciò che invece è importante sottolineare è che l’azione – la vita activa – così esposta dalla Arendt, è espressione di una libertà legittimata quando fondata su di una coscienza che la sostiene. Ovvero, l’azione da sola non basta per spiegare chi siamo; è la coscienza personale che precede l’azione a dimostrare pubblicamente il proprio valore di persona. Oggi, parrebbe che la gerarchia si sia ribaltata e che la mancanza di coscienza non eviti all’azione di agire. L’azione dovrebbe quindi, come era nell’antichità aristotelica, tornare a dipendere da una vita della mente, una vita contemplativa, che ci porta ad essere liberi, creativi, etici. Ovvero, persone. Dunque, la mancanza di contemplazione, quindi di riflessione, di coscienza, avverte Arendt, implica il pericolo dell’assenza di libertà e di eticità nel soggetto.

In definitiva, l’assenza di coscienza conduce all’incapacità di saper scindere il bene dal male, e quindi è possibile dichiarare che “la malvagità può essere causata da assenza di pensiero” (Weil 2009: 95).

Tutto ciò viene lucidamente dimostrato dalla filosofa con il suo saggio La banalità del male (Arendt 2002), ovvero il resoconto e l’analisi del processo del 1963 a Adolf Eichmann a Gerusalemme, per crimini contro gli ebrei e contro l’umanità. Inviata come corrispondente, Arendt descrisse il processo con un’onestà scomoda che scatenò innumerevoli polemiche. In particolare, però, quello che interessa è ciò che Arendt ha nominato “banalità del male”. Le azioni per cui Eichmann – tenente colonnello delle SS e diretto responsabile del trasporto dei deportati ebrei ai campi di concentramento – veniva processato non erano le azioni di un uomo malvagio, di una mente criminale, diabolica; erano invece azioni dirette da una totale assenza di pensiero: Eichmann non sapeva davvero cosa stava facendo, continuava a ribadire di stare obbedendo alla legge (ovvero la legge di Hitler), di aver fatto il suo lavoro, di non odiare gli ebrei e di non aver ucciso nessuno. Era, insomma, un insulso burocrate, l’operaio incosciente che agisce all’interno del meccanismo del quale non conosceva la finalità.

[...] quando io parlo della “banalità del male” lo faccio su un piano quanto mai concreto. Eichmann non era uno Iago né un Macbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che “fare il cattivo” – come Riccardo III – per fredda determinazione. Eccezion fatta per la sua eccezionale diligenza nel pensare alla propria carriera, egli non aveva motivi per essere crudele […]. Per dirla in parole povere, egli non capì mai che cosa stava facendo. […] Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza d’idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo (Arendt 2009: 290-291).

Esattamente come la forza analizzata da Simone Weil, così la banalità battezzata da Hannah Arendt risulta un potere astratto, sotto il quale l’uomo si piega. Perché? Dalle parole delle due filosofie, come da quelle di Zambrano (che ci parla della “fatica” del rinascere quotidianamente dalla verità), si deduce che, semplicemente, è più facile obbedire a una legge superiore, che comprenda e regoli ogni cosa, che sopportare il peso della responsabilità della libertà, quindi della scelta dettata dalla propria coscienza: “non dover giudicare e non dover agire affatto è una condizione desiderata ardentemente da molti nel mondo moderno” (Arendt 2008: 94). E ciò spiegherebbe, scrive Arendt, la nascita e diffusione dei totalitarismi, come l’incredibile sottomissione che il carisma di Hitler ottenne:

Se definiamo la logica come la capacità di giungere a conclusioni nella più completa indifferenza per la realtà e l’esperienza, allora il più grande dono di Hitler – il dono a cui egli dovette il suo successo e che provocò infine la sua caduta – era il dono della logica estrema. Quando egli sostiene, per esempio, che “il pensiero esiste solo nell’intimazione o nell’esecuzione di un ordine”, con questa affermazione egli trae l’ultima conclusione […], cioè che “nulla ha senso”. I suoi ascoltatori, affascinati com’erano dalla coerenza assoluta di questa visione del mondo, senza dubbio solo in rarissimi casi avevano abbastanza immaginazione pratica per comprendere il vero significato di questa logica ferrea. Solo in rarissimi casi essi compresero cioè che Hitler stava fornendo quella che, dal suo punto di vista, era una giustificazione assolutamente adeguata dei massacri organizzati quando sosteneva “che la natura aveva plasmato tutto e che quindi la cosa più giusta da fare era adottare le sue leggi”; e quando aggiungeva che “per esempio, le scimmie calpestano a morte quelle che non fanno parte del gruppo perché sono estranee alla società” […] e “ciò che è giusto per le scimmie è a maggior ragione giusto per gli esseri umani”, a quel punto aveva tutto il diritto di pensare di essere stato pienamente compreso (Arendt 2008: 95-96).

Hannah Arendt ha utilizzato una famosa frase attribuita anche ad Ortega y Gasset da María Zambrano: “siamo condannati ad essere liberi in ragione dell’essere nati” (Arendt 2009: 546)6: la nostra libertà di scegliere non può essere evitata, la nostra responsabilità sulle azioni che scegliamo di compiere non può essere dimenticata. Possedere un giudizio di comprensione è ciò che ci fa scegliere una cosa o l’altra. L’obbedienza totale, la sottomissione a una legge che cancella ogni nostro giudizio di valore ci rende massa inerte, marionette. La differenza tra persona e personaggio sta esattamente qui: nella libertà di scegliere la nostra propria etica. E questo non è possibile senza la coscienza di ciò che si è e una memoria “giusta” che ci aiuti a comprendere gli errori della storia.

Insomma, la banalità del male descritta da Hannah Arendt ci aiuta a semplificare quanto abbiamo analizzato nelle idee di María Zambrano e Simone Weil: la coscienza personale non riguarda solo una dimensione conoscitiva, ma prima di tutto etica; essere persona significa conoscersi, uscire dalla comodità dell’ignoranza, dall’illusione che così spesso seduce, per assumere, seppur patendola, la responsabilità di ciò che siamo. Si deve sapere, per avere la capacità di giudicare, di scegliere, e pure disobbedire. Conoscersi, per essere liberi.

Il pensiero è tutt’uno con la vita ed è in sé la quintessenza immateriale della vitalità; siccome poi la vita è un processo, la sua quintessenza può solo risiedere nell’effettivo processo di pensiero, non in un risultato concreto o in pensiero specifici. Una vita senza pensiero non è affatto impossibile; in tal caso, però, essa non riesce a sviluppare la propria essenza: non solo è priva di significato; non è completamente vita. Gli uomini che non pensano sono come uomini che camminano nel sonno (Arendt 2008: 286-287).

Basterà guardarsi intorno, osservare il mondo che ci circonda, per assistere all’enorme difficoltà che l’umanità subisce nel tentativo di attuare la propria libertà, schiacciata com’è da un capitalismo che ha preso il posto della legge divina o legge di Natura. Viviamo, volendolo o meno, con o senza consapevolezza, all’interno di un meccanismo universale che direziona ogni nostra azione. Ci viene detto che cosa fare, come pensare, che cosa dire, in ogni momento della nostra vita. Per lottare contro questa predisposizione oramai divenuta abitudinaria e inconscia, è bene prendere come esempio dall’insegnamento delle nostre filosofe: rinnovare quotidianamente la propria coscienza senza fissarsi in uno standard, conoscere la storia, mettere in moto la memoria, una memoria salvatrice, non piegarsi al comfort dell’ignoranza, dell’assenza di pensiero (a cui la tecnologia di oggi, come ben vediamo, tenta di assuefarci); soffrire e patire invece la fatica del rinascere a partire dalla verità, dell’assunzione di responsabilità della propria scelta.

Le tre autrici lo avevano compreso molto bene durante il periodo delle “loro” guerre e delle “loro” dittature (noi, oggi, abbiamo le “nostre”, allo stesso modo terribili), riconoscendo lucidamente il potere assoluto della legge storica che il pensiero occidentale ha prodotto, considerando cioè l’uomo come un’unità astratta, interpretando l’esistenza dall’alto, senza preoccuparsi del privato di essa. Così, oggi come ieri, assistiamo alla trasformazione dell’uomo in personaggio che obbedisce a qualcosa che, lo sia chiami forza, totalitarismo, capitalismo, divinizzazione, lo annichilisce in quanto persona.

La “rappresentazione” ha rimpiazzato la sincera visione di noi stessi, della nostra autentica esistenza. Possiamo prendere come esempio il fenomeno incontrollato dei social networks, dove è l’immagine presentata a decidere chi siamo. Appare qui ben chiara la potenza dell’illusione sulla quale il personaggio si costruisce, annullando la verità di sé dietro la maschera.

Questa tendenza è giunta a situazione paradossali, come i casi di persone rimaste uccise in incidenti automobilistici mentre si scattavano selfies guidando. L’immagine che uccide la vita, si potrebbe affermare. Ma anche evitando di citare casi così estremi, è quanto mai comune assistere a situazioni in cui lo schermo di un telefono s’interpone tra il soggetto e la realtà intorno a lui: l’immagine che ci ruba la vita, in ogni momento, in ogni luogo, in ogni azione.

Ci stiamo dunque convertendo nella più alta celebrazione del personaggio? In una fotografia ritoccata, in una immagine vuota, in un profilo illusorio? Non abbiamo più libertà, né privacy, però possiamo cambiare mille maschere, fingerci chi non siamo, e tutto questo è divenuto assolutamente “normale” ed “accettabile”. E questi fenomeni non sono che, ovviamente, insignificanti punte di un enorme iceberg che osserva i popoli in guerra – vittime o idoli che siano – con assoluta distanza grazie all’abitudinario, e innocuo, riferimento dello schermo.

Non è possibile offrire risposte o soluzioni, per un fenomeno mondiale che nessuno può più controllare. Ciò che invece è possibile è che a livello privato ognuno di noi si riconosca, si accetti, e decida di togliersi la maschera ed essere, per davvero persona.

Se l’uomo occidentale getterà la sua maschera e rinuncerà a essere personaggio della storia, sarà finalmente disponibile a scegliersi come persona. Ma non è possibile scegliere se stessi come persona, senza fare contemporaneamente la stessa scelta anche per gli altri. E gli altri sono tutti uomini (Zambrano 2000a: 198).

Bibliografia

ARENDT, Hannah (2001): “Che cos’è la filosofia dell’esistenza?”. Archivio Arendt 1930-1948. Milano: Feltrinelli.

— (2002): La banalità del male. Milano: Feltrinelli.

— (2008): “A tavola con Hitler”. Antologia. Milano: Feltrinelli.

— (2009): La vita della mente. Bologna: Il Mulino, Bologna.

MACHADO, Antonio (1998): “De un cancionero Apócrifo”. Poesías Completas. Madrid: Espasa.

ORTEGA Y GASSET, José (1983a): “Historia como sistema”. Obras Completas VI. Madrid: Alianza.

WEIL, Simone (1984): “L’Iliade o poema della forza”. La Grecia e le intuizioni precristiane. Torino: Borla.

— (1990): La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri. Milano: SE.

— (1994): Venezia salva. Milano: Adelphi.

— (2004): Quaderni I. Milano: Adelphi.

— (2006): Quaderni III. Milano: Adelphi.

— (2008): Attesa di Dio. Milano: Adelphi.

ZAMBRANO, María (1991): Chiari del bosco. Milano: Feltrinelli.

— (1992): I beati. Milano: Feltrinelli.

— (1998): Filosofia e poesia. Bologna: Pendragon.

— (1999): Agonia dell’Europa. Venezia: Marsilio.

— (2000a): Persona e democrazia. Milano: Mondadori.

— (2000b): Delirio e destino. Milano: Raffaello Cortina.

— (2001a): L’uomo e il divino. Roma: Edizioni Lavoro.

— (2001b): La tomba di Antigone. Milano: La Tartaruga.

— (2006): De la aurora. Genova: Marietti.


1 Cfr. Machado 1998.

2 Ci riferiamo in particolare alle opere di Maria Zambrano: De la aurora (2006), I beati (1992), Chiari del bosco (1991).

3 Il tema del personaggio deriva dall’insegnamento del primo maestro di María Zambrano, Ortega y Gasset, sebbene nella filosofa l’accezione diventi più grave ed esistenzialmente più tragica: “L’uomo s’inventa un programma di vita, una figura statica di essere che risponda in modo convincente alle difficoltà che la circostanza gli pone. Sperimenta questa figura di vita, tenta di realizzare questo personaggio immaginario che ha deciso di essere. S’imbarca illudendosi in questa prova e ne fa esperienza. Ciò vuole dire che arriva a credere profondamente che questo personaggio sia il suo vero essere.” (Ortega y Gasset 1983a: 40. Cfr., Ortega y Gasset 1983b: 421-438).

4 “il vero eroe, il protagonista dell’Iliade, è la forza” (Weil 1984: 11). Cfr. Weil 2004: 264.

5 Sul tema, cfr.: Weil 1990.

6 Cfr., sulla frase di Ortega y Gasset: Zambrano 2001a.

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